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RaccontiStefania Castella

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12 Giugno 2017
Nel tuo perdono
di Stefania Castella



Nel tuo perdono
abbracci

L’auto svolta dopo la curva, si apre un dipinto. Una città sognante, addormentata, si lascia baciare da un immobile mare. Sorrido al mio autista personale, un fratello bellissimo, il profilo baciato da un raggio di sole. Sorride, mi sento Tranquilla. Raggiungiamo la clinica, un intervento che mi salverà la vita. La vita. Un flash. Piedi sulla sabbia tiepida, corro raggiungo mio padre. Le sue spalle mi appaiono enormi, i piedi si avvicinano all’acqua mi guarda, i suoi occhi hanno lo stesso colore del mare. Gli tendo la mano, è l’uomo più bello del mondo ai miei occhi di bambina. Lontano, mia madre, ci osserva, la sento di spalle e sento inquietudini di atmosfere sospese. E’ il potere che ha di modificare le cose, di tenere sotto controllo ogni cosa, quello che è suo e quello che non lo è. Più. Ho sette anni all’incirca, una famiglia di felicità apparenti. Per gli altri, agli occhi degli altri, è tutto perfetto, come il portone di casa, è lì che si ferma l’idillio. E dentro, l’inferno. Di crisi isteriche, e pianti improvvisi, di sguardi di rabbia, di porte sbattute, le sue, perché “devo lavorare” perché “devo sistemare cose”. Il ricordo di me, è che piango seduta ad aspettare davanti alla sua porta, piango, mi raccoglie papà. “La mamma è nervosa. Poi le passa”. Io trovo la quiete soltanto con lui. E di solito è sempre una stronzata da nulla, un abito che non cade per bene, una telefonata che tarda ad arrivare, la modella quotata non permette mancanze, né cedimenti né una figlia settenne che cammina per casa senza scarpette, che lascia impronte di manine dovunque, con gli occhi socchiusi da lunghi adorati capelli, l’unico vezzo che lei mi concede. “Se fossi un pochino più ordinata. E metti le scarpe, e tira su i capelli e se non avessi quella pancetta…” e sorrisi beffardi, e la consapevolezza di non poter essere perfetta, perfetta come lei. “C’è una festa speciale, non mi farai fare figure…” Mi dice aspra come sempre, mentre con uno sguardo demolisce mio padre, che muto acconsente a cambiare la giacca, “i capelli non vanno, più in alto la coda”. Ma le cede una spallina, e allora la crisi ci coglie come un’ondata inarrestabile. Mi afferra, mi trascina mentre grido “papà” ma lei sbatte la porta, armata di forbici mi toglie via ciocca su ciocca “così ti ricordi di tenere alta la coda.” I lunghi capelli mi cadono ai piedi formando un tappeto di bellissime morbide ciocche. Piango, piangerò e smetterò per non farla arrabbiare. E lui stanco, sarà sempre più stanco. Lo guarderò andare dal balcone di casa, una mattina che albeggia e il mare è un’eco lontana. Mi lascia, ci lascia, e io resterò da sola con lei. Lei non mi ama, lei non ama che se stessa. Sono una cosa sua, una cosa da addobbare, per non sfigurare, una cosa in ascolto adorante di lei. Sarò una bimba triste, plagiata, oscillante tra l’amore e l’odio, sempre, per me stessa, per il cibo, per la vita. Per lei. Lei che lavora ogni giorno per annientare l’uomo che l’ha ferita lasciandola, non glielo perdonerà, mai. “E’ un vigliacco. Ti ferirà come ha ferito me”. Quel giorno al mare c’era anche lei. Era il suo piano studiato sulla mia ingenuità, sull’amore mancato e l’odio, sul suo potere e complice il nuovo tipo che aveva vicino. Lei, ricca di odio e di denaro, di uomini in devozione da manipolare a piacimento come me, come tutti noi. Il ricordo si annebbia, ecco, mio padre cammina voltato di spalle, si avvicina all’acqua. Sento il suo affetto a distanza di cuore, e sento l’acqua avvicinarsi piano. Samo una famiglia, all’esterno, la chiamerebbero allargata, siamo pronti a ferirci, siamo contornati di demoni, di rabbie e rancori. Sento l’acqua avvicinarsi, è vicina sempre più vicina. Sento il buio e non respiro, sento l’acqua infilarsi nel naso, cerco di serrare la bocca ma ingoio, acqua tanta acqua. E mani mi afferrano e non capisco se mi sollevano o mi spingono giù. Fischiano le orecchie, e il primo suono che sentirò è una voce di donna che dice “E’ il mio ex marito ha cercato di ucciderla. Lo so c’ero, l’ho visto”. Quella è l’ultima volta che vedo mio padre. Accusato da lei, che lavora su me. “E’ stato lui”. E mi convincerà a testimoniare, che “è stato lui”. Ci vorranno degli anni per convincermi e capire l’ordito composto da lei. Anni per dissipare le accuse e trovare una pace, un perdono, una sorta di quiete. Mi porta con lei, rimango con lei e un compago che beve imbottito di coca. Mi porta con lei, e giriamo a rincorrere il suo lavoro altezzoso, e mio padre diventa un ricordo rinchiuso e lontano. Da piangere a sere alternate, quando gli anni pesano e non sei che una ragazzina. Brutali bugie e lettere mai giunte a me. “Ti chiedo perdono” sarò già quasi donna, quando chiederò la sua comprensione. Lui, un uomo che ha ritrovato la pace con una giovane donna al suo fianco ed un figlio e una vita diversa. Io rinasco nella sua assoluzione, nell’abbraccio e il calore che torna a fluire. Mai più odio, lei è lontana, lontano il rancore. Mio fratello sorride mi chiede della mia piccolina “con chi resterà mentre tu resti qui?” “Resterà con suo padre. Lui è comunque suo padre”. E mi fido di lui, anche se siamo divisi, mi fido di lui, e mai parlerei di suo padre, così come mia madre faceva con me. Il mio seno traditore guarirà e tornerò a stare meglio. “Guarisci presto e torna da noi” Il biglietto e i fiori accolgono il mio risveglio. Mi assopisco di nuovo, sorrido serena, ho trovato il mio giusto equilibrio.Nel suo perdono, nel mio perdono








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