03 Novembre 2014 Io sto con la sposa: una storia di coraggio di Sara Cavedon
Io sto con la sposa
Lo spettatore che si siede sulle poltrone del cinema in attesa della proiezione di "Io sto con la sposa", film documentario finanziato dal basso, spesso non sa davvero cosa aspettarsi. Il tema trattato - i flussi migratori - è stato ormai ampiamente discusso fino all’esaurimento da registi, giornalisti e scrittori. Le stesse immagini, cioè quelle dei disperati che sbarcano da barconi sull’orlo del naufragio, sbucano da ogni televisore italiano ormai da anni, coperte dal suono delle voci dei cronisti che urlano all’emergenza migratoria, puntando il dito ora verso il governo, ora verso l’Unione Europea, ora verso i migranti stessi. Ma questa, quella raccontata nel film di Gabriele del Grande, è una storia diversa. Questa è, prima di tutto, una storia di coraggio, e di uomini che non hanno paura di andare controcorrente, di mettere in pericolo la loro stessa vita, per essere fedeli alle loro idee, per non tradirsi, perché sanno che solo il pesce morto segue la direzione dell’acqua, e solo un uomo cieco, o un uomo che non è uomo, chiude gli occhi di fronte alle grida disperate di chi ha bisogno di aiuto. È così anche una storia di grandissima umanità, di enorme filantropia. È infine, e più semplicemente, la storia di un matrimonio, della celebrazione della speranza di una nuova vita, di una possibilità di sfuggire alla guerra e al dolore che ormai da decenni tartassa una terra una tempo florida e viva. La grande idea di Gabriele del Grande, giovane giornalista italiano che si occupa da diverso tempo della questione migratoria, è appunto questa: ha un problema - aiutare cinque immigrati siriani e palestinesi a raggiungere la Svezia, attraversando tutta l’Europa - e trova una soluzione - la simulazione di un matrimonio -. Chi infatti fermerebbe un corteo nuziale, con tanto di sposa velata? Così dunque tre cittadini europei aiutano cinque migranti a raggiungere la Svezia, partendo dall’Italia per un viaggio emotivamente intensissimo e irradiato dalla paura di essere scoperti e di vedere il sogno finire. Del Grande e i suoi si espongono in questo modo alla legge penale, alimentando la necessaria disobbedienza civile nei confronti di una legge che si configura come ingiusta e discriminatoria nei confronti di persone che chiedono, avendone pienamente diritto, l’asilo e l’ospitalità presso un paese di loro elezione, la Svezia. Il rischio per i tre cittadini comunitari è senza dubbio enorme: infatti, se fossero stati scoperti in flagrante durante la loro operazione, la pena inflitta sarebbe stata la medesima prevista per contrabbandieri. E tuttavia, pur essendo consapevoli della gravità delle possibili conseguenze, gli italiani non si tirano indietro: essi danno dunque vita ad un itinerario che passa attraverso non solo tutta l’Europa, ma si addentra anche nei meandri di una cultura, quella araba, che appare più affascinante e viva che mai, fornendoci così un seducente spaccato di una società e di una cultura millenarie. Si percorrono non solo le strade che portano alla meta finale, ma anche le vite di ciascuna delle persone - perché sono persone, non personaggi - che fanno parte della spedizione. Si viene a far noi stessi parte delle loro esistenze tormentate e nostalgiche, speranzose di rivedere forse un giorno la terra brulla e distrutta che li ha nutriti. Il tragitto si configura in sostanza come un’autentica riscoperta della nostra umanità, come una vicinanza che ci accomuna anche a chi è diverso da noi, mostrandoci dei rifugiati che non ci guardano da uno schermo televisivo, che non sono solo una faccia in mezzo ad altre centinaia di facce senza nome. Essi sono finalmente persone, uomini e donne veri, reali, con speranze, disperazioni e dignità, con un passato terribile alle spalle, con i nomi degli amici e dei parenti che non ce l’hanno fatta incisi sotto pelle come una maledizione. E così questo viaggio che attraversa da nord a sud il continente, come un’antica carovana, diventa Odissea Omerica, dove l’uomo vaga per soffrire e soffre per conoscere, per acquisire finalmente consapevolezza di sé e di quello che lo circonda. Il viaggio e la pellicola si chiudono con l’immagine di una danza sfrenata ballata nel centro di Stoccolma: è una dabka, ballo da sempre destinato, nei paesi arabi, a celebrare l’amore per la propria terra e le cerimonie nuziali. Una danza del sentimento che rende omaggio al coraggio e la sfida di mettersi in gioco, che festeggia questo matrimonio, questo sodalizio, questo struggente desiderio di cooperare in nome un mondo migliore e di una vita dignitosa per ogni uomo. È così che si sente lo spettatore che si alza dopo la proiezione di "Io sto con la sposa": indignato ma consapevole, abbagliato dalla bellezza di una cultura antica, e orgoglioso della caparbietà con cui un italiano, Gabriele del Grande, ha combattuto per i diritti di persone che soffrono.