 | Fabrizio De André |
Sarebbero stati settantasei ancora una volta, ancora contando gli anni che passano come per gli umani, cosa che non appartiene a gente come lui, il maestro che cantava l’anima tirandola fuori dagli anfratti dove ovunque risiede per rivoltarla e poi rimetterla a posto ovunque avrebbe ritrovato il suo posto anche al contrario.
Ancora tra i viali risuonerà la sua voce, accompagnando le nostre lacrime di ricordo su quella sua sgangherata cattiva strada. Che bella la sua “Cattiva strada” dove ognuno di noi lo avrebbe seguito senza paura di perdersi. Anche nelle infinite notti senza luna. Un 18 febbraio dopo un altro, ancora a ricordare un compleanno e una mancanza. De André. Il maestro, il cantore degli ultimi, dei diseredati, il maestro che insegnava con la voce arrochita dal fumo, e le dita gialle, la sigaretta come continuità dell’aria del suo alito e il prolungamento della sua mano. Sulle spalle dritte e mai troppo in alto da sentirsi superiore, sempre un po’ inclinate come a portare le fatiche e il dolore del mondo intero, cantare le rime dell’esistenza raccogliendo i pensieri di chi non avrebbe avuto mai una voce né un ricordo, una bimba zingara con gli occhi immensi di prati di brine lievi, voce di puttane scalzate dalla vita, di innamorati che si dedicano la fine, voce di dispersi, cosa avrebbe detto dei nostri dolori, dei nostri lutti, dei nostri naufraghi, dei migranti senza sorte, “che solitudine” forse sì. Che ingioiellano la vita, che tristezza che ci abbia costretti a fare senza, senza di lui.
Il maestro che leggeva gli occhi abbassando gli occhi, che parlava cantando che si rabbuiava quando qualcuno gli dava del borghese, lui che aveva l’aria del signore ma che quella signorilità non l’avrebbe fatta pagare a nessuno. Lui e il suo accento e i muri scrostati della sua Genova, e le sonorità barocche e mediterranee di quella Croce cantata in dialetto, che sembrava una lingua di Antico Oriente, diventavano oro le sue parole, sentitele scendere tra le vostre ciglia, sembrano velluto. Oggi i suoi appunti disordinati raccontano quelle parole come un tempo immobile che non passa mai, dondola come l’altalena di Nina, che volava tra i ricordi di infanzia.
Fabrizio de André ha cantato ogni stato dell’anima, tracciato ogni umore nei mutamenti lievi dell’amore senza mai essere banale, senza mai essere scontato, ha cantato l’amore come nessun altro, l’amore per tutti, l’amore per tutto, per chi lo merita e soprattutto per chi non avrebbe mai creduto di poterlo meritare. Cantautore del tutto, della vita e dei suoi corsi, scivolando come la sua Dolcenera acqua, portando via le storie degli uomini e delle donne a pensarsi nelle distanze.
Folgorato da Brassens, adoratore di Jazz e di canti insieme agli amici Luigi Tenco, Gino Paoli, Paolo Villaggio quella scuola genovese di vicoli che si stringono, si riempiono di suoni di tamburi che rimbombano e di acqua assolata che si apre all'improvviso. Gente di mare col mare negli occhi e la pelle bruciata di sale e ricordi e fatica. Timido, timoroso, e poi il palco che regala la forza, che la musica è una compagna che prende per mano e cancella la paura, e confonde le timidezze che il mondo ha bisogno di quella magia che sa regalare la sua magia. I suoi musicanti intorno come menestrelli alla corte del Re con il “Potere scagliato dalle mani” e le mani che finiscono dove comincia una chitarra. La voce della donna che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, riconosciuta nella folla di voci, compagna di avventure, di suoni, di aride prigioni a perdonare, compagna di umori e saliscendi e fumo negli occhi e occhi a lacrimare di poesia, da vivere l’amore col dolore dell’amore.
Insieme per tutta la vita, per tutto il resto di quella vita a tempo, e che peccato doverla lasciare tra la nebbia e il fumo e il ricordo mai sbiadito. Fabrizio non è mai andato via, è tra i pensieri senza età di chi lo ascolta e non può più farne a meno, parla ancora la sua voce, la sua libertà, è dietro le spalle tra le orecchie di chi ancora lo ascolta, lo canta, l’amica Fernanda Piovano diceva “Non doveva andarsene. È stato il più grande poeta che abbiamo avuto” quanta ragione aveva.
Trovatelo un altro poeta che sapeva cantare allo stesso modo dell’amore e della libertà, facendo convivere Dio e l’ateo, portando a braccetto il disgraziato e il boia il carnefice e il suo innamorato. Lui sapeva vedere quello che gli altri faticavano a vedere “In un vortice di polvere, gli altri vedevano siccità…” mentre lui ci vedeva il ricordo, i colori, la levità il girotondo di un tempo buono senza ritorni. Per ricordarlo nel giorno del suo compleanno dalle 20 del 18 febbraio e fino all'alba è prevista la tradizionale cantata collettiva aperta a tutti in Piazza Duomo a Milano che si tiene ogni anno nel giorno del suo compleanno e in ricordo della sua morte l’11 gennaio, un modo di ritrovarsi e ricordare ancora le sue poesie, i suoi versi, i suoi ricordi perché “Se la gente lo sa, e lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita…”
Buon compleanno Faber. Sei qui, ancora.
|