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Cultura - SocietàStefania Castella

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26 Gennaio 2015
Alda Merini la 'poetessa dei Navigli', una vita tra buio luce e poesia
di Stefania Castella



Alda Merini la 'poetessa dei Navigli', una vita tra buio luce e poesia
Alda Merini
nella sua casa milanese

Chi nasce con un dono ringrazia, saluta e ringrazia. Dipende dal dono, certo, direte. 

Il dono certe volte è pesante, semplicemente pesante da sopportare.

 

Nascevo il primo giorno di primavera, nascevo molte altre volte, cento, mille anni dopo, anche quando ero troppo stanca per rinascer ancora. “Quando sono entrata in manicomio la prima volta ero una bambina, con due bambine sì, ma ancora ingenua felice, moglie, madre. Ero poeta, aspettavo che qualcosa di bello avvenisse sempre". Ero un po’ felice, un po’ stranita certe volte. Poi le luci diventano intermittenti, all'epoca non ci sono molte alternative, ti sembra che qualcuno dia i numeri, chiami un’ambulanza, finisci per essere pazza.

 

Pazza, non sapevo cosa fosse un manicomio prima di entrarci, non ne avevo mai visto uno. Le sbarre alle finestre, la puzza di piscio ovunque. Io e la mia compagna di stanza ci mettevamo da una parte a guardare gli altri, e qualche volta avevamo paura di diventare come loro. Erano urla, strepitii, vestiti che si strappano di dosso. Impossibile non ribellarsi, e ti prendono per matto ancora di più quando vuoi solo difenderti. Come con l’elettroshock, nessuno voleva quella tortura, quella “fattura” che ti cambiava la testa e pure la faccia. Ci davano premorfina, il bromuro per non farci agitare. Una volta mi sono ribellata a quella sevizia, me l’hanno fatto senza anestetico, sento ancora adesso il dolore.

 

Alda Merini poetessa, anima felice sospesa tra la normalità e la poesia. C’è qualcosa di difficile a cui rapportarsi anche solo nell'accennarlo. Domandandosi se il poeta debba essere folle sempre e comunque sopra ogni cosa. “Se spolveri le farfalle, le farfalle non volano più” diceva in un’intervista “una volta volevano mettermi in ciabatte, in manicomio, io dico non è possibile, perché il poeta è come un parafulmine scarica sulla terra l’energia, se gli metti le ciabatte come fa?”. In manicomio Alda rimane per quasi dieci anni. I suoi testi più drammatici e intensi sono quelli raccolti in “La terra Santa” l’esperienza dell’internamento, freddissima lucida nelle descrizioni. È un urlo, l’urlo di un innocente condannato alla pena di morte, un braccio infinito che attende per tutta la vita. Come reduce da un lager, i versi della poetessa sono versi di angoscia, di sbarre, di mani aggrappate a guardare fuori aliti di vita lontani. Sono passi felpati del “dottore agguerrito nella notte” che somministra sedativi col ghigno feroce “se ne va, sicuro devastato, dalla sua incredibile follia”. Alda Merini, dice oggi la scienza essere bipolare. Bipolare voleva dire preda di sali e scendi emozionali di crisi persecutorie, di depressioni maniacali alternate a fasi di euforia, eccitazione. Bipolare oggi vuol dire depresso, ansioso, patologico da stabilire, sicuramente non da internare, ma all'epoca, gli anni sessanta, un tempo in cui la cura era diversa, era chiusura, era ghetto. Voleva dire figlie portate lontano, famiglie che si sgangheravano e voleva dire sguardi straniti della gente voleva dire alla richiesta di un caffè: “io non lo prendo un caffè con una matta. Quella matta ero io. Alda Merini” Tutto al limite, tutto sopra, come le nuvole leggere, tutto troppo. Alda scrive, scriveva, scriverà per tutta la sua vita, una vita costellata di combinazioni, occasioni, premi letterari che la ripagano dalla fatica di scrivere, forse, ma non di vivere, o forse il perfetto contrario. Ama la vita ama l’amore, e quando il mondo le volta le spalle per un lungo periodo non troverà nessun appoggio per il suo lavoro, lotterà aspettando, aspetterà lottando fino a risalire, fino a sfiorare il Nobel per la letteratura e gridare al mondo intero “ci sarà qualcosa di buono in quello che scrivo no?”

 

Oggi che i manicomi non ci sono più e di poesie e di teorie e di cure per i “matti” se ne fanno per prima cosa cercando di capire. Resta una poetica e un ricordo di poeta indelebile. Resta nell'immagine di scritte, numeri, appunti, disegni, progetti sulle pareti. Restano figlie con il ricordo una madre ingombrante, che dava affetto come poteva, presa dal suo poetare, che non era frivolezza, era bisogno di raccontare di scrivere o dettare improvvisamente al telefono ad un amico, un pensiero, un ricordo, un’emozione. Grata alla vita di essere vita. Vita ferita ma pur sempre vita Il rossetto rosso, lo smalto in tono, i cappellini di paglia. Il sorriso, la sigaretta senza filtro, la voce rauca, come un corpo che trascina con una enorme fatica, Alda trascinava le sue parole, negli ultimi tempi, quasi un soffio roco perché tutto pesava, cominciava a pesare la malattia e ancor di più quel dono, che il mondo ha riconosciuto e poi dimenticato esaltato e poi lasciato andare.

 

Vivere un metro più su degli altri, forse questo è il poeta che è, e sente prima degli altri, e non riesce a vivere se non di poesia. Alda Merini muore nel novembre del 2009, tra i rintocchi di campane della sua Milano, tra chi la amava e mendicava una parola, un verso un gesto d’amore, che mille volte era stato svegliato di notte dal trillo di un telefono, una voce rauca senza presentazioni, che cercava qualcuno con cui condividere, quella stessa parola, verso, sussurro che era gesto d’amore e paura. Una folla commossa di amici che sognavano come lei quelle ombre di luce e di buio di chi vive indispensabilmente di poesia: “Se la mia poesia mi abbandonasse come polvere o vento, se io non potessi più cantare, come polvere o vento io cadrei a terra sconfitta, trafitta come la farfalla in cerca della polvere d’oro…” Un dono pesante un dono grandioso, un dono per pochi. Dolcissima poetessa dei Navigli.








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