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Cultura - SocietàTommaso Tota

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17 Aprile 2015
La notte nera della democrazia: scuola Diaz, 21 luglio 2001
di Tommaso Tota



La notte nera della democrazia: scuola Diaz, 21 luglio 2001
Massacro nella <br> scuola Diaz
"Preparai con tutta la cura possibile il mio sacco a pelo color verde militare, usurato ai lati dai tanti campeggi estivi, mi misi comodo e tutta la stanchezza si fece sentire, ero molto stanco. Tutto il giorno in piedi nella zona collocamento ad ascoltare le persone, chi cercava un posto per dormire, chi la stazione e chi dove mangiare. Ero molto stanco. Ero anche gratificato. Pensai a mia madre, non accettava il fatto che stessi a Genova a fare quelle cose. Che poi, quali cose? Per colpa di pochi violenti che non approvavo per nulla, tutti eravamo guardati come i manifestanti comunisti e distruttori della quiete pubblica e che odiavano a morte la polizia. Non era così, non era affatto così, io di sicuro non ero così. Non lo era neanche Paolo, un giornalista con cui avevo molto legato in quei giorni, lavorava per una testata non certo di sinistra, e sono abbastanza sicuro che neanche lui lo fosse.
 
Quella sera non ci parlammo molto, preferimmo stare in silenzio, nei nostri sacchi a pelo ad ascoltare il freddo fruscio di passi e di voci che albergavano la scuola Diaz. Io ormai stavo cedendo, il sonno mi prese per mano ma lo respinsi aprendo e chiudendo gli occhi in fretta come facevo da bambino. Pochi secondi dopo fui spaventato da un improvviso tonfo e pensai che fossero gli altri ragazzi che stavano rientrando, poi un altro e un altro ancora. Mi misi a sedere. Al quarto tonfo mi alzai in piedi e mi iniziai a preoccupare. Guardai alla destra del mio sacco e paolo dormiva tranquillamente e mi tranquillizzai per un istante. Soltanto per un maledetto istante però, perché poco dopo sentii delle persone urlare e salire le scale in tutta fretta verso i nostri dormitori.
 
«La polizia!» urlarono i ragazzi. «Stanno entrando!»
 
«Entrano, Entrano. Vogliono sfondare la porta!» dissero altri.
 
«Police! Police!» gridava Karla, una ragazza tedesca super studiosa che conosceva più lingue di quante ne avrei potute imparare io in tre vite.
 
Ora anche Paolo si era alzato, ci guardammo senza dire niente e dicendoci tutto. Ora avevamo paura.
 
«Sono entrati ragazzi, sono entrati! Stanno spaccando tutto!» disse Lele salendo di corsa le scale.
 
Lele era uno degli organizzatori lì e l’unico con il profilo adatto per prendere in mano la situazione e tranquillizzare tutti.
 
«Ragazzi resistenza passiva!» disse. «Alzate le mani e non ci faranno niente!».
 
Alzammo le mani e il mio sguardo si incrociò di nuovo con quello di Paolo, non aveva detto neanche una parola, ma aveva detto tutto. Avevamo molta paura. Alzammo le mani entrambi, così come tutte le persone che si trovavano nella palestra adattata a dormitorio. Ansia al massimo, paura a mille, sudore freddo come quell’inverno in Russia di quattro anni fa, rumore e rumore e rumore. Urla, passi pesanti come piombo e li vidi arrivare in massa su per le scale. La polizia era arrivata in palestra e noi con le mani alzate. Avevano tutti il volto coperto e cominciarono a spaccare i computer con il manganello e picchiare tutte le persone che si trovavano di fronte a partire dalle mani, dalle braccia che pochi secondi prima erano alzate e ben in vista. Lele era davanti a tutti e fu il primo ad essere colpito. La palestra tremava. Lele fu colpito forte alle braccia e sul fianco e cadde a terra dove fu accerchiato da quattro poliziotti e riempito di calci e sputi, il tutto accompagnato da dei sonori "Pezzi di merda" e "Comunisti vi riempiamo di botte". Nel frattempo gli altri poliziotti avanzavano e Karla fu colpita alle gambe prima e allo stomaco poi e cadde all’indietro sbattendo la testa sul termosifone e perse i sensi. Giaceva a terra con il sangue che si allargava intorno ai suoi capelli e alle sue spalle, gli arrivò un altro calcio sul fianco anche mentre ormai non sentiva più nulla. Stavano per arrivare a me, e a Paolo.
 
Mani bene in vista, annegavo nel sudore e tremavo per un misto di paura e terrore e adrenalina e voglia di abbassare quelle mani e scappare tra i manganelli e gli sputi che volavano in quel posto. Scappare non per codardia ma perché semplicemente non volevo far parte di quello che i miei occhi stavano vedendo, non faceva parte di me e credo della maggior parte di noi. Sentivo pianti e urla da ogni angolo dell’edificio, ormai tutti sapevamo che la scuola era piena di poliziotti. D’improvviso tornai alla realtà e capii che stavo urlando mentre vedevo Paolo che veniva trascinato per i capelli verso le scale, aveva sangue in faccia e sui capelli e veniva colpito e ancora colpito sulla schiena con i manganelli. Spostai lo sguardo e li vidi venire verso di me. «Sono un giornalista! Press!» urlai mentendo sperando di uscirne. Sentii delle risate provenire dai loro volti coperti e subito sentii un colpo sulla schiena. Credo fosse un manganello o la parte superiore di una sedia, non lo so. Ricevetti un colpo allo stomaco e caddi a terra e subito dopo un calcio nei denti e la testa mi rimbalzo a terra come un pallone da calcio e vidi esattamente e con estrema chiarezza un dente (o forse due o forse tre) che toccò il pavimento fino a finire lontano da me. Ridevano e urlavano e offendevano mentre picchiavano. Sentii il sangue che mi colava sulla fronte mentre continuavano a calciare e calciare forte a un ragazzo disteso a terra che poco tempo prima pensava a sua madre e a quanto fosse stanco. Finsi di aver perso i sensi, anche se ci mancava poco, e smisi di difendermi. Ora mi avevano lasciato in pace e toccava ad altri, rimasi disteso per un po’. Ora cominciavo veramente a sentire tutto il dolore che prima non sentivo, forse per la troppa adrenalina. Provai ad alzare il braccio e vidi che si muoveva in modo strano, sia internamente sia esternamente e faceva un male cane quindi lo posai di nuovo a terra. Credo fossero passati all’incirca trenta minuti dall’irruzione ma non ne ero sicuro. Le urla c’erano ancora ma molte di meno, le avevano soppresse tutte, pensai. Mi guardai un po’ intorno con le forze rimaste e Karla era ancora a terra, sdraiata senza dire nulla e con la bocca aperta e gli occhi chiusi. Paolo non c’era. Vidi anche un anziano signore che piangeva raggomitolato intorno al suo stomaco, non lo avevo mai visto, forse era nuovo.  Poi tornai a me, ormai il dolore era lancinante. La mandibola, lo stomaco, le gambe, il braccio, il fianco, la fronte, la testa. Non riuscivo quasi a distinguere il dolore delle varie parti del corpo. Un dolore unico, mio e di tutti gli altri che immaginavo stessero come me, se non peggio. Poi chiusi gli occhi e vidi solo il buio. Vidi vari tipi di buio. Il buio di me stesso e il buio della scuola e il buio della palestra e il buio della democrazia e della libertà e dell'Italia e di mia madre. Poi solo il buio più totale. Mi svegliai in ospedale e avevo il braccio ingessato e quattro punti sulla fronte e cerotti e bende dappertutto. Dolore lancinante. Pensai a Paolo e sentii qualcuno parlare di Bolzaneto. Secondo loro era lì che erano stati portati alcuni ragazzi. A malapena riuscivo ad aprire la bocca. Ma pensavo e pensavo tanto. Non si trattava di fascisti o comunisti, di destra o sinistra, di polizia o contro la polizia. Quello non c’entra e Paolo ne è la dimostrazione. Ho assistito, abbiamo visto tutti. Quella sera tutti abbiamo assistito alla notte nera della democrazia. Siamo stati picchiati con una cattiveria e una rabbia inaudita. Leggendo i giornali i giorni successivi mi resi conto che ero stato fortunato ad essermi rotto solo un braccio. Alcuni erano andati in coma, altri trattati da bestie alla caserma di Bolzaneto. Mi ero appena svegliato dopo la notte nera della democrazia, una notte lunghissima, che non dimenticherò mai.
 
Oggi leggo i giornali e vedo che i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato lo stato italiano ritenendo che l’operato della polizia deve essere qualificato come tortura. Tortura. Ma in Italia il reato di tortura non esiste e chi ha comandato quell’irruzione e chi ha dato l’ordine si trova ancora al proprio posto, magari pronto a dare ancora un altro ordine."
 
Questo non è un pezzo contro la polizia né contro alcun organo dello Stato. Questo non è un pezzo contro nessuno. Questo è un pezzo per qualcuno. Un pezzo per chi era lì quella notte, sia da una parte che dall’altra. Un pezzo per chi torna a casa ferito dopo uno scontro con dei manifestanti violenti. Un pezzo per chi si sveglia in ospedale a causa di alcuni poliziotti violenti armati di manganello e di comandanti violenti armati di cellulare, sedia e scrivania che fanno più male degli stessi manganelli.
 
Questo è un pezzo per la democrazia, un pezzo per la libertà, un pezzo per il sangue e per tutti i colori del sangue. Perché chi tira molotov durante manifestazioni non può girare libero per strada e chi abusa del suo potere come quella notte non può fare quel lavoro (e neanche girare libero per strada). Perché nella Costituzione c’è il diritto all’integrità fisica e c’è il diritto alla libertà personale (non sono ammessi atti di coercizione fisica sia da polizia che da privato) e c’è il diritto alla liberta di manifestazione del pensiero e la libertà di riunione e di associazione e il diritto alla salute e all’eguaglianza davanti alla legge. Tutti questi diritti sono nella Costituzione Italiana e se ci soffermiamo su ogni singola libertà possiamo notare che troppo spesso o l’una o l’altra sono state violate in svariati modi e tempi.
 
Oggi l’Europa ha ammonito l’Italia, ci ha detto che siamo stati cattivi quattordici anni fa, come si fa con i bambini piccoli che hanno disubbidito. L’Europa ci ha detto in coro che la giustizia italiana non ha agito in modo giusto, e se avesse un po’ più di tempo ce lo direbbe per  mille altre occasioni. Però anche questa volta l’Italia l’ha scampata, perché qui in parecchi la scampano troppo spesso in un modo o nell’altro. Ma sono passati tanti anni e questa sentenza cambia poco le cose e resta il fatto che quella notte la democrazia ha subito l’ennesimo brutto colpo. Una democrazia che zoppica e viene tirata per i capelli giù per le scale, una democrazia che sanguina . E quel sangue non è stato ancora pulito.
 
 
[I nomi usati nella storia iniziale sono inventati, tutto il resto no. La storia è una ricostruzione basata su interviste, documentari e film riguardanti quella notte]







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