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Cultura - FotografiaStefania Castella

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30 Ottobre 2018
Sergio Siano, vita da fotoreporter, gli anni del mito e una Napoli senza filtri.
di Stefania Castella



Sergio Siano, vita da fotoreporter, gli anni del mito e una Napoli senza filtri.
Diego Armando Maradona
Lunedì 20 maggio 1985 mio padre mi mise al collo la Nikon FM e disse: "Segui tuo fratello e impara a fotografare come lui". Cominciava così il cammino, quello ineluttabile, di chi consuma la suola delle scarpe per arrivare e fermare quello che gli altri vedranno dopo di lui. Il presente, il passato, il futuro, tutto quanto insieme. Sergio e davanti a lui suo fratello Riccardo e il padre Mario, prima che l’investitura da cavaliere medievale facesse di quegli occhi da scugnizzo, uno degli sguardi più forti e sinceri spalancati sulla città. Lo sguardo è quello da fotoreporter che Sergio Siano per il quotidiano il Mattino ha puntato sulla cronaca in ogni sua fenditura, in una città dalle mutevoli sfumature, quella Napoli multietnica e multicolore, femmina rumorosa, dai silenzi lunghissimi come la pausa tra un’onda e l’altra e un lungomare incorniciato in tutto il mondo. "Sono cresciuto in un quartiere popolare- dice - in una famiglia di reporter, abituato a correre su un fatto di sangue, a seguire le proteste, o i terremotati che vivevano una realtà impossibile e ho cominciato presto a cercare di mostrare la ragione delle cose. Non mostrarle e basta, scavare più a fondo, per denunciare, che è parte del mio mestiere, senza puntare mai il dito e basta". C’era spazio per il dolore e spazio per il sogno che in quegli anni aveva un nome, l’ultimo lavoro firmato da Siano ha quel solo nome in copertina: "Maradona" (Edizioni Intra Moenia) la raccolta di immagini e ricordi di anni a bordo campo a seguire i passi del mito, quando il brivido era nell'allenamento, nel sudore di un essere a metà tra l'umano e il mitologico ammirando e fermando, mostrando tutte le sfumature del giocatore più amato del calcio.
Prima di parlare di Maradona, come nasce il fotoreporter Siano?
«Cominciavo nel maggio dell’85 con mio fratello Riccardo, lui all'epoca fotografava per il Giornale di Napoli. Ci occupavamo soprattutto di cronaca e di calcio, quindi Maradona. Erano gli anni delle proteste dei terremotati che dormivano davanti alla prefettura, dei blitz, della lotta all'abusivismo edilizio. Anni difficili, a settembre l’omicidio di Giancarlo Siani ci lasciava storditi.»
È cambiata la città, la visione di questa città, anche attraverso il filtro della macchina fotografica?
«È cambiata la città ma anche noi, il modo in cui si lavora e si riporta. Un tempo si lavorava con gli acidi che se finivano sulle magliette, dopo le dovevi buttare. Oggi è diverso, tutto immediato e facilitato dalla tecnologia. Io ho vissuto il periodo analogico e per questo mi sento fortunato, confesso che la tecnologia non mi appartiene molto.»
Cosa significa raccontare questa città per te, per il lavoro che fai?
«Occuparsi delle cose che non funzionavano, ieri come oggi e come il mestiere richiede. La necessità primaria, è quella di denunciare cercando di trovare soluzioni. Puntare il dito e basta, non è mai servito a niente.»
Come ci si pone davanti al fatto più crudo, c’è un filtro per non essere troppo coinvolti?
«L’omicidio, la tragedia, chiaramente all'inizio le prime cose segnano e non ci si abitua mai alla morte, ma sono nato in una famiglia di fotoreporter, nato e cresciuto in un quartiere popolare, non ero stato catapultato in qualcosa che non sapessi. Fotografare per un giornale, non è solo fotografare, è vivere il fatto a 360 gradi.»
Poi venne Maradona…
«Maradona c’era già ed io ero una delle facce in curva la prima volta che è venuto a Napoli, non avrei immaginato che dopo, mi sarei trovato a un passo da lui. Per me era qualcosa di leggendario. Maradona è stato non solo un dono per il calcio, ma il riscatto di un’intera città.»
C'è un passaggio nel libro che dice: "Durante una partita Juventus-Napoli nello spogliatoio ci dicemmo che l’unico modo per fermarlo era menargli di brutto. Ma dopo dieci minuti in campo ci guardammo e ci dicemmo che no, era troppo bello vederlo giocare" una frase di Zbigniew Boniek. Maradona non era solo qualcosa che apparteneva a Napoli...
«No. La sua umanità, il modo di rapportarsi. Nelle combinazioni che determinano quello che è il genio e non sa nemmeno di esserlo, chi lo ha vissuto lo ricorda come un giocatore unico e parlo non solo dei compagni, ma anche degli avversari. No, non era solo una questione napoletana.»
Esiste la possibilità che racconti un altro personaggio della stessa portata di Maradona, che abbia rappresentato la città allo stesso modo?
«Direi che Maradona l'ho vissuto. Caravaggio approfondito, cercato, studiato. Piccole sfumature che fanno la differenza. Potrei fare una cosa simile con Totò che ha rappresentato una radice, un'origine. Mi chiedo se un domani, come diceva lui, tutto sia destinato a scomparire, ad essere dimenticato...»
Questo lavoro è un modo per lasciare un'impronta
«Assolutamente. Anche oggi che è tutto reperibile e immediato, la paura è comunque lo smarrimento. La fotografia è un modo per fermare la bellezza che resiste. C’è tanto a cui lavorare, ci impegniamo a non restare in superficie.»
Una fotografia che più di altre ti resta nel cuore?
«Tante e tutte quelle che sono state la copertina dei miei libri come "Il mare che bagna Napoli" per esempio, quella mareggiata mi riportava al libro di Anna Maria Ortese che amo molto, racconti che sono la parte ferita di questa città che conosco e che denuncio. Mentre fermavo l’immagine, pensavo al messaggio che voleva dire al mondo di quel mare, che non esiste soltanto la bruttura, che sappiamo che esiste un’angolatura dura, difficile, ma cerchiamo una ragione e una soluzione. Le cose con cui conviviamo dobbiamo conoscerle a fondo per comprenderle davvero.»
Un'ultima domanda su Maradona e l'emozione di essere a un passo dal mito…
«Indescrivibile. E non solo per noi napoletani, per tanti colleghi, per tanti calciatori, per chiunque lo abbia vissuto. È stato parte di un connubio, una combinazione di elementi. La povertà da cui proveniva, l'umiltà, la capacità di adattarsi. Oggi i ragazzini che non lo hanno vissuto, portano la maglia con il suo numero addosso. Perché? Perché hanno bisogno di credere in qualcosa di bello, di sentire quell'esaltazione. Dopo lo scudetto che legava una città intera, quella passione l’ho sentita difficilmente. Rivedere quelle immagini, è un po’ come vedere un film di Totò o come ritrovare un parente, un modo per stargli vicino sempre.»
Fermando in uno scatto, un attimo che lo renderà per sempre immortale.






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