 | | storie di nera d'estate |
Il caos della mattina era appena cominciato, rumore di voci, chiacchiere, caffè. Sbuffo di vapore e Il suono di una tazzina poggiata sul piattino, consueta, sequenza di sempre, abitudini. Nero, leggermente macchiato, rigorosamente amaro: “Come va la vita, dottore. Hanno archiviato il caso, avete letto?”. Giovanni il barista voltava il giornale dalla parte dell’uomo di fronte. “E che ti aspettavi, sono passati più di trent'anni” “Ma lei si ricorda?” “E chi se lo scorda”, lavoravo ancora all'epoca, io.
Un uomo, ombra tra gli altri lasciò la tazzina bevuta a metà. Si fece largo tra le facce all’uscita, ombra tra le ombre.“Dimenticare, dimenticare tutto” L’uomo era uno come tanti, faccia comune, lavoro comune. Niente da ricordare, nessuno da incontrare, forse era stato sposato nessuno ne aveva memoria. Non parlava mai, sorrideva poco, poco alzava lo sguardo. L’uomo, usciva di casa sempre alla stessa ora, tornava a casa sempre alla stessa ora. Sua madre viveva con lui e passava il tempo incollata alla sedia, alzava la testa solo per lo spostamento d’aria provocato dall'entrata ed uscita del figlio. Se c’era il soprabito lui era in casa, se il soprabito non c’era, lui era fuori. Niente di più, estate e inverno.
Da tanto tempo, un tempo che non era sempre stato così. Un tempo era stato un tempo normale, come quello degli altri. Napoli, giorni di agosto 1975. C’era un donna che ogni tanto s’affacciava, si sentiva il profumo di muschio passare con lei. Qualche volta risuonava anche il guizzo di una risata. C’erano vita e progetti. Quella voce di donna portava freschezza allegria e soldi, soprattutto, soldi, tanti quanti quelli della sua famiglia. Una bella occasione, da accendere un cero alla Madonna che aveva permesso che una si accorgesse di quel figlio strano che parlava poco e non aveva un futuro certo davanti. Bisognava stringere, sposare i due, e mettere a posto le vite di tutti. Ma non fu così, il matrimonio non aveva cambiato niente nemmeno la voglia di fare nulla di quel figlio.
Le telefonate di una voce giovane incominciarono a sere alternate poi tutte le sere. Portarono scompiglio e valigie, e urla forti. Anche quella sera, pochi anni dopo quello sterile binomio di umani che non facevano che litigare. La telefonata arrivò puntuale. La giovane donna con la mano sul ventre sperò ancora una volta in un futuro di illusione. “Stasera, si, stasera parliamo e tutto andrà a posto” Napoli, 25 ottobre 1980. Sera. Dalle vetrate opache le facce sembravano più che altro ombre. Da dentro e da fuori. Rumori e voci rimbalzavano fino alla strada. Quasi buio, passaggi di macchine, lenti, costanti. Maria aspettava in piedi ancora un po’, aria tiepida, i vasi sul balcone da riportare in casa. Un occhio alla strada per vedere Marco rincasare, l’orario sempre quello, il marciapiede dove sarebbe comparso, di fronte. Un attimo lo stridio di un auto la colse di spalle, sembrò un urlo o il vagito acuto di un neonato. Si strinse forte nella vestaglia leggera chiudendola tra le dita, tutt’a un tratto sembrò fare più freddo, guardando verso la strada vide il ragazzo guardarla come le stesse urlando, gridava: “hai visto?” senza parlare. Un auto era schizzata passandogli a un passo dalla faccia, giusto il tempo di saltare all'indietro. Un colore strano, spiccava, cupo rosso, sanguigno come le ciliegie più dolci. Non era stato probabilmente il suo momento di lasciare questa terra. Un tempo, dopo. Folla di gente, voci, clacson forsennati. “Capo, ma quanto ci vuole? Qua dobbiamo lavorare”. Il 135 rosso non era mai stato puntuale ma quella mattina era piantato al centro della carreggiata, davanti a lui gruppi a due a due di uomini, chi in divisa, chi in borghese, chi fumava ai lati del marciapiede. Anna si faceva spazio tra la gente col pancione grosso, arrivando al finestrino sporco, scorse solo un auto di un colore strano e uomini che la spingevano, divise, cappelli, sudore di parecchie fronti. Quella mattina di lavoro era iniziata storto. “È per quella storia che è successa, avete sentito? Una strage, mo’ stanno facendo i rilievi”.
Qualcuno cominciava a raccontare, il fatto aveva colpito parecchio, ed ognuno voleva dire la sua. Quel giorno, alle undici di sera la donna aveva alzato lo sguardo, non c’era il soprabito appeso all'uncino di legno. Strano. A quell'ora. Pensò. Sera come tante. I passi dell’uomo facevano rumore tra la folla nessuno avrebbe fatto caso. Oltrepassò il locale, i fumi quasi nebbia e gli odori che aleggiavano. Attraversò l’androne uno come tanti, ostinate gerbere non avrebbero voltato le corolle, nessuno vedeva, nessuno sentiva. Movimenti distratti da luci di tv. Ascensore, campanello. Fece tirar su le teste di ognuno, ognuno preso dai suoi attimi, dai propri pensieri. Familiarità, nessun battito accelerato, presenza quotidiana. L’uomo comune confondeva i suoi pensieri con la realtà e cercava una statuina più pesante delle altre per ovviare a quella realtà. Quel problema andava risolto, altri avrebbero pagato senza troppo rimorso. Quell’arma non si trovò mai, colpo breve forte e poi buio. Il primo uomo. Passi, scivolano tra luci soffuse, e odori di casa, in mezzo uno scorcio di normale familiarità, i piatti in tavola, la tavola normale di una famiglia normale.
Alla fine di tutto ne resterà ben poco in quello che sarà un mattatoio ben studiato, come tutto, intorno, tutto doveva raccontare un orrore senza svelare troppo e troppo presto. Almeno non prima che fosse salita la puzza, insopportabile, quella che avrebbe costretto ad entrare con le mascherine. Il viso un tempo umano dai contorni ormai incerti, una donna non si distingueva più, tutt'uno coi capelli, un solo colore rosso sangue, la prima donna, composta in un abbraccio mortale, lei sopra, lui sotto, sbuca un piede una scarpa allacciata di lui stride col petto nudo. Puzza di morte di muffa di orrido. Lunghe chiazze, enormi scie da una stanza all'altra, e l’ultimo corpo a due passi da un lago rosso cupo, intrecciato a lenzuola e coperte. La giovane donna di casa, la seconda donna, Lei. Telefono accanto, viso bellissimo, ultima a cadere sotto i colpi di una mano da chirurgo, precisa, centrata, un colpo in più degli altri toccò a lei, dal ventre scavato come in cerca di che cosa? Si cerca, si chiede. Le impronte, le mani lasciate alla finestra di casa. Le ciocche di capelli. Si interroga, individua.
Ci sarà un processo, passeranno anni, un ergastolo e un’assoluzione dopo, il caso resterà sospeso. Come quelle vite finite in un modo brutale. Un caso riaperto anni dopo, e ancora una volta un buco nell'acqua. Quell'uomo correndo incrociava una faccia, lasciava una scia di orrore e di passi, di tracce di pezzi di puzzle, tra le ombre nitide di quella serata. Alle cinque di mattina quella porta degli inferi fu chiusa per un'ultima volta. E ricordi di rumore di passi svaniscono nei ricordi, oltre il ricordo, nei “non ricordo”. “Non sono sicuro”. Era grosso, era alto, era basso, era secco. In quell'ultimo abbraccio mortale un segreto portato dall'altra parte dove nessuno da vivo potrebbe arrivare.
“Commissario è la prima volta che vedo un morto” “E allora stai indietro che non voglio raccattare pure te, fai una cosa vatti a prendere un caffè.” Nero, leggermente macchiato rigorosamente amaro. Come la vita. Lettere a un giornale per riprendere a indagare, a poco serviranno se non a riportare ancora quei fantasmi, in quella strada, in quella casa, oltre le mura. L’uomo rimise al suo posto il soprabito, passò come sempre con la testa abbassata. Il telefono da allora non aveva più squillato. Il matrimonio, alla fine non avrebbe funzionato. Dimenticare, dimenticare tutto. Trent'anni dopo ancora parlano le foto, bianco e nero nello spazio di un tempo rimasto sospeso a metà. Un padre, una madre, una giovane donna, una mano sul ventre squarciato. Un delitto, un’arma, un movente Nessun testimone. Una storia comune, una faccia comune, una storia di nera più nera del buio. “Hai visto quella macchina, per poco…” “No non ho visto niente, non ho visto proprio niente”
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