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26 Agosto 2017
Un cappello di paglia. E quell'ultima estate
di Stefania Castella



Un cappello di paglia. E quell'ultima estate
un cappello di paglia

Mercedes ridammela ti prego, per l’amor di Dio ridammela”.

“Por el amor de Dios- La donna ride con gli occhi di ghiaccio- de lo que Dios”

Di quale Dio.

“Ti prego perdonami. Ridammela. TI prego”.

 

 

L’estate di un anno fa.

E’ passato un anno, ancora non dimentico. I ricordi sono vividi, oltrepassano la realtà raggiungendomi nel sogno, perseguitandomi. Sono stanca. Un inverno lunghissimo dopo quell’estate, il lavoro che torna a vacillare, la salute di mia madre anche. Lei che si ritrova da sola, non ha ancora sessant’anni e ha già smesso di vivere. Tutto dopo quell’estate si è catapultato in avanti come una giostra che ti dondola, socchiudi gli occhi e ti spinge giù. Nel vuoto. Il compagno di una vita che se ne va via all’improvviso senza neanche il tempo di una replica, di una parola per capire: “Sono arrivata a metà del film, con quegli stupidi pop corn, lui era sul divano, era lì con la testa poggiata al braccio. Sembrava dormisse. Ho lasciato cadere tutto, tutto sul pavimento”. So che lei ha smesso di vivere in quel momento, ogni volta che ripeteva quella storia, rivedeva la scena, ogni volta che ricordo quei momenti, mi viene in mente la fatica che ho fatto per tirarla via da lì, da quell’attimo. Mentre piangeva lentamente e come un automa continuava a ripetere “TI ho fatto il pop corn e adesso? E adesso?”. Sembrava una bambina una bambina sola e disperata. Due mesi dopo è andata via anche lei, in silenzio, di notte, con il flacone di sonniferi tra le dita bianche. Ha lasciato il dolore e una rabbia incommensurabile, anche se sapevo che era tutto troppo insormontabile per lei. Il dolore, il senso di colpa per quella storia che non si era mai dissolta completamente. E ricordo quell’estate, quell’ultima estate.

“Andiamo al mare siamo solo noi tre dai”.

Io e la piccola Vittoria siamo sole dalla separazione, in cerca di un lavoro, la casa in affitto è troppo per me, la depressione fa il resto. Torno a vivere a casa dei miei. Le cose sembrano andare lentamente meglio e verso l’estate improvvisamente la conferma di un momento di sollievo, rientrano dei pagamenti, e ritorna la voglia di essere felice. Mia madre è titubante alla proposta di affittare una camera in un resort, lui, Mattia, il suo compagno da sempre, accusa qualche malessere ogni tanto, non se la sente di viaggiare, poi c’è il lavoro, la convinciamo anzi la convince vittoria con un sorriso dei suoi. Partiamo con l’animo non troppo leggero, con piccoli pezzi mancanti e musi lunghi (di lei) come un’adolescente che “mai fatta una vacanza da sola ci volevate voi per convincermi”. Quell’estate doveva essere la leggerezza. Ma forse eravamo noi le prime a mancare di leggerezza. Il resort a due passi dal mare. Siamo solo noi tre, Vittoria ci ruota intorno, noi due sdraiate di fronte guardiamo il cielo, potremmo essere felici, ma qualcosa nell’aria sembra opprimere. Scendiamo in spiaggia i primi giorni quasi a fatica. Poi arriva dirompente la piccola che vuole nuotare, correre, vuole il gelato e passeggiare fino al tramonto. Il mare trasparente da bere fino a sera: “Imparerò a nuotare nonna, mi insegni?”. Rivedo l’immagine di me sulla riva, ho freddo, ho sonno, sono stanca; mi salutano sorridono, ”Vieni anche tu” io fumo indolente “non posso, magari dopo” e pensandoci avrei doluto cedere alla tentazione forte di buttarmici senza pensare, ma sentivo anch’io il peso opprimente che non libera la mente, che non permette di lasciarti andare alle piccole cose, quelle che rimpiangerai poi. Giorgia arriva dopo pochi giorni, saluta con uno strano accento, inonda con gli occhi azzurri e le labbra rosa, ha l’età di Vittoria, si sorridono e nonostante non parli bene l’italiano si capiscono da subito. Ridono da subito, una scuotendo la testolina bruna l’altra muovendo nell’aria i morbidi riccioli dorati. “Sua madre lavora in un albergo, sono originarie di un paesino spagnolo. Io sto con la bimba tutto il giorno da quando si sono trasferite qui in costiera. So che Mercedes, sua madre, si era innamorata di un italiano qui durante una vacanza ma a quanto pare ha fatto un buco nell’acqua. Io sarei ripartita, lei ci è rimasta a vivere.” La tata della bimba racconta fin nei minimi particolari la vita della piccola che cerca di parlare a Vittoria a modo suo con un accento bellissimo, si sente l’eco delle risate, ridiamo anche noi con loro. Giorno dopo giorno le due si legano trascinando anche noi “corriamo che c’è Giorgia”, “mi aspetta Giorgia” sono inseparabili, e la piccola Giorgia non smette mai di correre e ridere e giocare con me, con mia madre che insegna a galleggiare come due paperotte a due piccole entusiaste provette nuotatrici. Fa bene anche a lei distrarsi, e correre insieme a me, alla tata alle onde leggere e qualche gabbiano.

“Me gusta tu sombrero” Gli occhi trasparenti di Giorgia si fissano sul mio cappello di paglia mentre Vittoria ride al suono della frase “Mamma hai sentito? Ha detto, Me gusta”. Le sento ridere forte

“Te gusta? Allora vuol dire che domani ne compreremo uno anche per te”. E come ogni promessa è debito e per i bimbi di più, appena spuntiamo all’angolo del mattino dopo, la piccola ci viene incontro per avere il suo regalo. “Pensavi me ne fossi dimenticata mia bella chica?” Le infilo il cappello mentre ne tiro fuori uno per Vittoria. Mi guardano come se avessero il diamante più prezioso tra le manine “non siamo bellissime?” Sono bellissime e così identiche con i cappellini in paglia intrecciata e un lungo nastrino rosa, uguali con l’ombra fin sopra gli occhi che si fatica a distinguerle. “Siete due bellissime gemelle” dico mentre sono già in direzione spiaggia a correre verso le onde. Raggiungo la riva con la tata che osserva attenta, e mentre le piccole si rincorrono in un attimo vola il pomeriggio, è quasi il tramonto, decidiamo di tornare un po’ prima “c’è troppo vento prenderemo un gelato. Venite con me” Mia madre ci passa davanti con le bimbe per la mano. Io e la tata siamo a due passi. Da quel momento tutto scorre come il frame di un film. Passi lenti vocìo di gente, il gelataio da raggiungere al marciapiede opposto. Mi fermo, cerco il telefono che squilla, istintivamente anche la giovane tata si ferma aspettandomi. Poi è un secondo che non riesco a fermare. Vedo volare via un cappello, plana ma non reagisco, mi sento come in un quadro, un’estranea che non c’entra niente, non realizzo, il cappello risale, rotola e dietro di lui una bimba lo rincorre. Sento la voce di mia madre ma c’è gente, non vedo, non capisco, il cappello raggiunge il marciapiede ora le bimbe sono due corrono verso il bordo della strada, corrono verso il cappello, mia madre afferra una delle due, l’altra continua verso la strada. Un rumore sordo che non dimenticherò mai, come le urla, come il cuore che credo si sia fermato nel petto mentre resto ferma senza riuscire a fare un passo. Mi strattona la giovane donna accanto a me, grida e mi tira verso la scena, mia madre di spalle, per terra tiene stretta una bimba capisco ma non riesco a guardare, si volta, è Vittoria ancora col suo cappello stretto sulla testa, crollo in ginocchio mentre la folla si raccoglie intorno al corpo esanime al bordo della strada, mia madre seduta per terra mi lascia la bimba va verso quel corpo, sviene e di quel momento ricordo di aver visto due occhi trasparenti che mi puntano addosso uno sguardo che mi inchioda. Uno sguardo disperato. Una delle cose che di quel momento non dimenticherò più.

L’ospedale, la polizia, le urla, le voci, le domande.

Tutto quello che è avvenuto dopo è una nebbia che non riesco a dipanare, la madre della piccola che cerco tra la folla, le valigie che facciamo poco dopo, il ritorno che ci inchioda senza più pace. E tutto quello che sarà nei mesi a venire, come l’espiazione di una colpa che si aggrappa alle spalle di mia madre senza tregua. Insieme alla perdita dell’uomo della sua vita, sono un colpo che non avrebbe potuto sopportare. Mentre Vittoria che non ha mai pianto, da quel giorno parla a stento e non dorme più.

“Dovresti farlo. La bimba ha bisogno di tornare, di elaborare. Troppe cose tutte insieme, prima la sua piccola amica, il nonno che scompare improvvisamente, poi la nonna. Lei che non ha mai pianto. Ha bisogno di affrontare, per dimenticare. Riportala al mare. Non ha mai nominata la piccola Giorgia. Riportala lì, bisogna far riaffiorare tutto”. La mia amica Flavia insegnante e psicoterapeuta mi ripete di continuo a distanza di mesi da tutto quello che è capitato, di riportate la bimba lì. Io non ce la faccio troppi ricordi troppo dolore. Mi lascio convincere dopo un anno di battaglie. Bisogna tornare per quelle strade, rivedere quei ricordi in faccia per elaborare, per superare. E con la morte nel cuore e le lacrime da piangere di nascosto, decido di partire. E’ così poco e mi sembra ancora troppo presto. Arrivo in un luogo che mi sembra ormai estraneo, mentre Vittoria mi guarda senza parlare. Quando raggiungiamo il mare si ferma, si accosta alla riva, si siede non ho il coraggio di tirarla via. Mi siedo con lei, lasciando che le onde ci bagnino le scarpe. Mi sento osservata come se qualcuno ci avesse seguite, mi volto ma non vedo nessuno. E’ una sensazione che mi accompagnerà per tutto il tragitto fino alla casetta del piccolo camping a due passi. E’ affiancata al resort, quello dell’anno prima, la proprietaria “non c’è, lei non c’è mai, vi accompagno io” la signorina che ci accoglie è gentile ci mostra le camere. Per tutto il pomeriggio Vittoria resta seduta sull’uscio senza parlare. Le prendo i braccioli, la borsa, è ancora presto cerco di scuoterla di sperare in una reazione. Si lascia prendere per mano raggiungiamo l’acqua come due piccole barchette che non trovano la riva. Mentre le infilo i braccioli non cerca di nuotare, si stringe a me, e mentre l’acqua gelata ci sfiora, le lacrime mi rigano la faccia accaldata dal sole. Intorno a noi nessuno, eppure ancora la sensazione di essere osservata non mi lascia. Sono giorni pesanti in cui cerchiamo di distrarci, di fare finta di nulla come fossimo ancora noi pur non essendolo più. Ma è quasi uno degli ultimi giorni che mi sembra che Vittoria sia più leggera, inizia a correre, tanto che devo starle dietro veloce, mentre raccoglie pietre: “a forma di cuore” mi sorride, si lascia andare tra le onde. La tengo d’occhio, cerco di fare attenzione ma mi accorgo che la stanchezza mi prende di colpo, in certi momenti ho paura di addormentarmi, di perderla di vista. Mi succede di assopirmi nel calore di pomeriggi di pensieri e ricordi, un attimo, la cerco la chiamo forte, vado di passo in passo tra gli ombrelloni, mi assale l’ansia, la vedo sulla riva, mi sorride mi viene incontro. “Guarda” mi mostra un sassolino dei suoi preferiti a forma di cuore, ma ha qualcosa tra le mani. “Una signora mi ha dato questo”. E’ un cappello di paglia con un nastro rosa. E sento un brivido. Le urlo di starmi vicina di non allontanarsi mai, poi mi sento un verme l’abbraccio forte. Non capisce, sbuffa, infila il cappello “torniamo domani mamma così magari ti faccio vedere la signora che me lo ha regalato”. E mi prende la tentazione di fare le valigie subito, fortuna che sono solo pochi giorni.

E’ un pomeriggio che quasi volge al tramonto che la vedo correre e in un attimo il riflesso del sole mi abbaglia, la chiamo forte, non riesco a vederla ci sono poche persone intorno, corro più forte, non risponde, vado nel panico, urlo, arrivo al limite della spiaggetta e sulla riva vedo qualcosa, un cappello di paglia lo raccolgo e guardo verso il mare. Lei è lì, è una donna di spalle con una bimba tra le braccia. Arrivo ad affiancarla è Vittoria tra le sue braccia. La donna mi guarda con gli occhi di ghiaccio trasparenti, e capisco. “Mamma sai come si chiama la signora? Si chiama Mercedes non è buffo? Mi ha regalato il cappello, ma è volato via. Siamo amiche e ora, mi insegna a nuotare” Vittoria mi parla, cerco di sorriderle ma ho paura.

“Sei tu? - Dico- Sei sua madre vero?”

“Mi pequena” La stringe. “Mi fai male signora Mercedes” si lamenta lei. Mi avvicino lentamente mentre lei si allontana, vorrei urlare ma ho paura della sua reazione

“Lasciala Mercedes ti prego pe l’amor di Dio lasciala. Non è colpa mia è stato un incidente. Mia madre si è tolta la vita per quello che è successo, per il dolore, per il senso di colpa ti prego credimi so cosa stai provando ti prego per l’amor di Dio”

“De lo que Dios?” Di quale Dio.

“TI prego Mercedes”. Piango rivedo la scena, il cappello volare. La mia immobilità codarda. Non resterò immobile, non posso. La vedo scivolare nell’acqua sempre più giù mentre la piccola cerca di divincolarsi corro verso di loro cerco di strappargliela, ma sento la sua mano sulla testa che cerca di spingermi sotto, e non ho più paura sento una forza che mi spinge, una forza che non avrei creduto di avere, la afferro le graffio la faccia, le strappo la piccola dalle braccia mentre lei si ferma e piange disperatamente raggiungo la riva cercando di respirare. Stringo la piccola che mi abbraccia forte.

“Mamma” Dice solo Mamma. Piangiamo forte come nessuna delle due ha fatto dopo tutto quel dolore. Piange anche la donna mentre disperata si lascia andare nell’acqua. MI tiro su dalla riva prendo a fatica la piccola tra le braccia la bacio, la stringo e corro sempre più forte sempre più lontano. Cerco di ritrovare la strada mentre la donna diventa più piccola, la mia Vittoria avvicina il suo viso. “Il cappello, mamma il cappello è rimasto lì”. La guardo, la stringo più forte le dico “Non importa resterà lì, è meglio così molto meglio così”. Sento le sue lacrime scivolare sulla mia spalla. “Torniamo a casa adesso mamma”. Torniamo a casa.








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