Rss di IlGiornaleWebScrivi a IlGiornaleWebFai di IlGiornaleWeb la tua home page
Lunedì 03 novembre 2025    redazione   newsletter   login
CERCA   In IlGiornaleWeb    In Google
IlGiornaleWeb

RaccontiStefania Castella

CONDIVIDImyspacegooglediggtwitterdelicious invia ad un amicoversione per la stampa

08 Agosto 2015
Quell'attesa alla stazione. Storia di Emma...
di Stefania Castella



Quell'attesa alla stazione. Storia di Emma...
una stazione
luogo di
evocazioni...

“Bene, perfetto arriverò tra duemila ore”. Sbuffo, sudo, mentre s’incastra il tacco del sandalo nella fessura del predellino di questo forno mobile che dopo un’ora e mezza dice già “Cambio” come l’amico infame che giocava da piccolo al posto tuo appena mettevi il piede sul campetto di pallavolo. Il controllore mi tende la mano “Attenzione, non vorrà mica rifare il viaggio all'indietro?”. Spiritoso come non dovrebbe esserlo nessuno sotto il sole di ferragosto in una stazione desolata. La gente si dirama a maglia larga ognuno a cercare il suo posto all'ombra, al chioschetto dei gelati, un paio di vocette di bambini, ed io e il mio trolley puntiamo verso la sala d’attesa, sicuramente senza aria condizionata data la porta spalancata e l’assenza di vita dentro. Intorno, asfalto tremolante, binari vuoti di viaggi infiniti, e il frinire delle cicale che dovrebbe predisporre l’animo all'estate, ma è un’estate cominciata storta e inframmezzata peggio.

 

Se non avessi perso il treno delle 8.00, adesso non avrei dovuto aspettare un cambio di 63 minuti e se non avessi incontrato Luca, adesso sarei già coi piedi a mollo e la testa al riparo del cappellino di paglia che mi aveva regalat…pardon, sarei coi piedi a mollo e la testa al sole, punto. Mandarlo affanculo ha portato via troppo tempo, nove anni e tre ore (e le tre ore partivano da stamattina alle sette), l’avessi fatto prima ora non sarei nel nulla a parlare da sola. Maledetto porco, traditore. Afferro il libro dalla sacca, mentre cerco una cicala più accanita delle altre, con la tentazione di tirarle il tomo ma sarebbe inutile dato che ce ne sarebbero mille altre, sue parenti ad accanirsi su di me.

 

Rabbrividisco al pensiero e un suono di tacchi distoglie l’intenzione omicida. Una donna si siede di fronte. Si guarda intorno e mi fissa di botto. Abbasso lo sguardo nel libro, la recensione, conto di finirla per la fine del mese, ma data la situazione potrei finire tutti i 40 capitoli in questi interminabili minuti. “Il Diario di Emma?” Alzo la testa verso la voce, un viso da statua di marmo con enormi occhi verdi mi sta sorridendo… Ha una blusa leggera con un laccetto che la tiene su legata intorno al collo, spalle e braccia sottili, i capelli che le sfiorano. poco sotto, le orecchie, un sorriso bellissimo. Pantaloni a zampa e scarpe di tela che non vedevo dai settanta di mia madre nel suo momento hippy. Sorrido anch'io. “Si, è per una recensione” sembro giustificarmi.

 

“Oh scrive? Che meraviglia, anch'io sa, ho sempre scritto.” Ok vorrà raccontarmi la solita tiritera, del romanzo nel cassetto che ognuno tira fuori quando avverte la parola “scrivo per…” “Lo conosco sa, è un po’ vecchiotto” mi dice. “Si, è che insomma, avevo un paio di cose in sospeso e allora…” ma cosa le spiego, stava lì da mia madre due giorni fa, mentre ancora credevo che Luca fosse l’uomo della mia vita e allora volevo solo chiudere in fretta il capitolo agosto-lavoro e ho preso il primo a caso da uno scaffale… In realtà avevo letto in due giorni di agonia, solo la quarta di copertina, otto volte, l’introduzione e tre capitoli, e già mi sembrava insopportabile.

 

Storia di Emma e di sua madre Angelica, una donna rimasta vedova giovanissima che cresce la figlia a metà tra l’essere soffocante e invadente e la voglia di sentirsi indipendente, libera, sempre giovane, e soprattutto ancora desiderata. Frustrata, frustrante con il fidanzato di Emma in odio profondissimo perché troppo spiantato, troppo inutile, troppo nulla per lei, e quindi per Emma. Lui che la tradisce di continuo lei che lo ama profondamente. Insomma una solfa insostenibile. Donne che perdonano…

 

“Cosa dice di Emma?” La giovane donna si è alzata e avvicinata alla mia postazione. Sento un odore di muschio e un senso di inquietudine. “Dico che Emma è succube di tutti, forse pure di sé stessa. Ha una madre che critica qualunque cosa faccia e un tizio accanto che la riempie di corna, e continua imperterrita a perdonare e giustificare tutti”. “Lei non è mai stata tradita?” Mi guarda con un sorriso dolce e riesco a vederle luccicare i denti alla luce. Mi vergogno per un attimo dei miei e della sigaretta che sto sfilando che non li farà sembrare più bianchi. Le porgo il pacchetto, lo prende con dita lunghissime e sospetto, guardando in giro come se si aspettasse di essere sorpresa da qualcuno. “Grazie” dice mentre le porgo da accendere. “Io sì, sul tradimento, come dire, ho già dato e messo una bella pietra sopra, non sopporterei di essere vista come una senza palle, come…” “Come Emma, dice?”

 

Sbuffa via un po’ di fumo e guardo come aspira boccate grosse e veloci, come quelle che a tredici anni tiravo io, nei bagni vietatissimi della scuola. Sembra un ragazzina. Continua guardando altrove. “Guardi che Emma è molto più coraggiosa di come sembri, sa, il capitolo più carino è quello in cui dice alla madre che aspetta un bambino da lui e lei si dispera quasi come quando le aveva portato a casa la sorpresa del tatuaggio. Un cuoricino ed una effe sulla nuca…” Conosce bene il libro la tipa, ho paura mi riveli il finale, mi precede. “Non le racconterò il finale, ma dovrebbe andare più a fondo nelle cose…” Figuriamoci se mi metto a sentire i consigli di una tizia vestita da Hippy nel bel mezzo di una stazione desolata il 15 di agosto… “Lei conosce bene la storia…” le faccio con educazione. “Io, aspetto solo che torni mio marito. Lui è andato via due mesi fa con una ragazzetta del suo corso di psicologia. Ma gli ho scritto, gli ho spiegato che deve riflettere, siamo una famiglia”. Mette le mani sul ventre, un pancetta piccola e tonda che non avevo notato prima. Non so che dire, le confidenze di tizie sconosciute a ferragosto mi angosciano, ma lo scopro solo ora. “Lei crede che si possa perdonare ogni cosa? Aspetta un figlio da lui, lo fa per quello?” Ho paura di essere stata invadente, ma oramai è fatta. “Eravamo così giovani quando ci siamo conosciuti, avrei fatto qualunque cosa per lui. E l’ho fatta, sa? Ho sopportato le lamentele di mia madre, i rimproveri, anche se quello che diceva era in fondo tutto vero. A Filippo non è mai interessato troppo il denaro, l’ambizione, lavorare e diventare una persona importante. A mia madre non andava giù che ci sbattessimo da una parte all'altra per i suoi corsi, le ripetizioni, poi è iniziata la storiella che di solito accade. So come vanno queste cose, sa? Le ragazzine affascinate dal professore. Io sì, io, ho le mie colpe, mai avuto troppa cura del mio aspetto. Forse avrei potuto tenermi un po’ di più come dice sempre la mamma…”

 

Mentre racconta non posso fare a meno di guardarla, così bella, come può sentirsi una nullità solo perché una madre in esaurimento le dice che non è abbastanza, e l’uomo che ama la tiene sospesa tra un tradimento e l’altro? Continua a dire “Sa” come se io dovessi o potessi sapere veramente, in realtà non so niente, né di lei, né di quel marito infame o di sua madre, o della ragione per la quale siamo qui tutt'e due. “Gli ho comprato una cravatta, l’ho scelta con cura. La guarderà e riderà di me, come fa sempre. Io mi arrabbierò. E gli dirò quanto mi è costato girare per trovare una cravatta che si intonasse al verde bottiglia dei suoi occhi. Gli dirò che potrebbe indossarla per la cena con mia madre, che quella ragazzetta deve farsi da parte, non può mica andare avanti così. E quindi ritorneremo a cena tutti insieme come una vera famiglia. Siamo una famiglia, è giusto che torni” Non riesco a seguirla, parla come se leggesse un copione, guarda il vuoto, asciuga sudore e qualche lacrima non so che dire se non: “Un bambino è una bella notizia, lo sarà anche per sua madre, no? E magari lui sarà felice e cosa importa…” “Sì, sarà felice e tornerà a casa, me l’ha promesso, mi ha detto che sarebbe arrivato con quello delle 10.

 

Mia madre ODDIO non oso pensarci” … Non capisco perché questa bellissima giovane sconosciuta debba rivelarsi così a me in questa mattinata di caldo africano, come se fossimo amiche che si sono perse di vista anni prima, a parte pensare che non deve essere tanto normale, come può essere normale cercare una cravatta da regalare il quindici agosto, verde bottiglia, poi e preoccuparsi di rimettere in piedi un matrimonio, pensando che la cosa che più conta è essere a cena da mamma, puntuali magari …e poi dici che ti molla. Mi viene da ridere a pensarci, metto una mano alla bocca perché non si noti, mentre la sua voce mi raggiunge alle spalle. “Odia le cravatte perché odia dover mettere una cravatta per andare da mia madre. Odia le cravatte e odia lei. E lei ricambia totalmente”.

 

Che fortuna penso, la mia adorava quel bastardo traditore scopatore di squallidissime e scontatissime segretarie e odierà me quando saprà che l’ho mollato. Mi odierà prima di sapere delle corna, poi mi odierà comunque per non averlo scoperto prima e alla fine insomma odierà comunque me e non lui, perché lui sì che “ha la testa a posto, lui…” Squilla il cell e lupus in fabula mi sta cercando. “Mi può tenere un secondo questi?” passo il libro, la sacca e il pacchetto di sigarette alla mia compagna di desolazione, sperando non si dilegui, soprattutto per le sigarette.

 

“Sono alla prima sosta. Sì, ho perso il primo, e mi tocca aspettare il cambio, ci vorrà un po’ di tempo in più. Inutile che mi dici facevi prima, mamma, se avessi potuto fare prima, avrei fatto prima, no?” Qualche sbuffo e due o tre “che palle” dopo, terminata la conversazione mi sembrava un’assurdità che lei non fosse fuggita vendendosi la sacca e sfumacchiandosi le sigarette facendo del libro un falò, non mi sarebbe apparso impossibile in questa mattinata infernale di caldo come non si sentiva dal trecento Avanti Cristo. Ritorno indolente al mio posto ma per fortuna manca poco, e se puntuale, dovrebbe essere qui tra meno di quindici minuti il mio mitico treno. La folla si accalca avvicinandosi lentamente. Guardo la donna negli occhi e mi sembra di essere risucchiata dal suo sguardo e che tutto possa essere risucchiato compreso il treno in arrivo, la sala d’attesa, il controllore sudato, i bimbi al chioschetto. “E’ molto bella mia madre, sa? Mi dice che dovrei prendermi più cura di me, lei vorrebbe che lo lasciassi, che, tornassi a casa, ma io senza lui…”

 

“Forse ha ragione, forse potrebbe crescere il bimbo anche senza aver bisogno di un uomo, succede sa?” Lo dico e poi penso che quel “Sa” potrebbe sembrare ridicolo, ma lei non se ne accorge... “Non torni da lui se non è convinta davvero, non lo faccia solo per, solo per, insomma…” Le guardo la pancia, forse ho amplificato tutto, troppo, lei si tiene come per proteggersi. “Questo è suo” mi porge il libro che quasi avevo cancellato dalla memoria. “Dovrebbe organizzare le sue cose, che manca poco, dovrebbe essere più indulgente, sa? Io non voglio Filippo perché sono incinta, voglio lui perché ho scelto lui, noi siamo una famiglia. Io lo amo e…” Sento che sto facendo tardi, infilo il cell, le sigarette, fazzoletti accendino e mi sembrano un miliardo di cose, tirate fuori mentre tengo Emma tra le mani. “Dovrei avviarmi verso il binario...” dico e mi sembra di avere le gambe pesanti. “Oh sì,” mi tiene le spalle allungandomi un bacio lieve sulla guancia, e sfiorandomi un orecchio mi sussurra “dovrebbe perdonarlo quel Luca, sa?” sento il fischio del treno arrivare più vicino mentre mi avvio senza pensare.

 

La vedo dritta e magra con le mani sulla pancia aspettare che scenda il suo amore. E penso che sì, dovrebbe andare come vuole. Che anche se non la conosco, penso che certi amori te li meriti nel bene e nel male, e poi mentre la folla quasi spinge verso una sola direzione mi ricordo di non aver neanche nominato il bastardo e cerco di voltarmi per, per cosa? Non le ho chiesto neanche il nome… Sono al fatidico scalino, con la folla che spinge e il tratto breve dal binario alla sala d’attesa sembra chilometrico, e lei sembra una figura lontanissima. La vedo guardare in giro cercare lui, forse, sono al finestrino mentre un tipo con uno zaino enorme mi spinge e mi tira via il libro dalla mani, lo raccolgo mentre al vetro lei mi sembra più vicina, un attimo, di spalle, persa nel vuoto, improvvisa una folata di vento le sposta i capelli. Che diavolo? Ha qualcosa sul collo che metto a fuoco, è un tatuaggio. Un cuoricino una effe. Sta per partire quasi, mentre tiro giù il finestrino, nella polvere lei lì, di spalle. “Emma, Emma” grido forte e la vedo voltarsi, mi sembra che mi guardi mentre ormai è diventata sempre più lontana.

 

 

Mi siedo come se fossero venute meno tutte le forze, com'è possibile? Quel tatuaggio, quel…apro il libro, sfoglio qualche capitolo degli ultimi, noto un appunto, che non ho scritto io. È un prologo che ancora non avrei letto se non chissà quando.

“Cara, dolce Emma che non ho mai capito, che non mi hai mai capita, ti ho amata e ho pensato che non ci saremmo mai sentite vicine se non quando una delle due non fosse più tornata indietro. Sei andata a via e non me lo perdonerà mai. Quel treno che ti ha portata via, colpa sua, colpa sua”.

 

“Mia figlia Emma, dicono sia caduta, un incidente, io so che aveva aspettato lui, che lui l’aveva delusa come sempre. Emma, la mia piccolina, ha aspettato tutta la vita…”

 

La madre, la figlia, il treno, torno alla nota, è una scrittura veloce: “Cara Claudia, sì, conosco il suo nome, conosco tutti quelli che arrivano qui in stazione, volevo solo dirle, perdoni Luca, sbagliamo tutti, sa? Assolva Emma, non merita il suo giudizio cattivo, è solo una donna innamorata che non voleva vivere senza di lui. Le lascio una scritta che mi accompagna dal primo libro letto, anch'io scrivo e leggo ancora, soprattutto i libri che la gente dimentica in sala d’attesa, dice: “Gli innamorati sai, non si comportano in maniera intelligente, logica, razionale, o tutte queste belle cose, si comportano da innamorati e basta. E basta” Il treno andava e io chiudevo il libro senza sapere più nemmeno dove fossi e con la convinzione che quello sguardo di immensa tenerezza, non avrei mai potuto non assolverlo…








  Altre in "Racconti"