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22 Agosto 2015
Un'ultima volta e basta... Ricordi? Era estate...
di Stefania Castella



Un'ultima volta e basta... Ricordi? Era estate...
amiche

“Non mi guardare così, lo sai già, che cosa dovrei fare?” … “Che cosa? Che cosa dovresti fare? Ah Silvia…” Ecco il tipico dialogo del dopo. Dopo un tempo tipo, una telefonata tipo, una faccia tipo. Valeria sapeva già, intuiva, riconosceva le sfumature e il grado di alzata di sopracciglio che mi veniva quando quel nome lampeggiava sul display, di più, aveva maturato la convinzione di saper distinguere la vibrazione diversa del suono del telefono quando chiamava lui. Convinzioni tsè. Cosa potevo farci se Mauro ritornava a fasi alterne e ogni volta trovava la linea del telefono libera, e non solo quella. Anni di convivenza sotto lo stesso tetto, dopo il liceo, le stronzate di una vita, le condivisioni di tutto, io e Vale eravamo sorelle acquisite. Due isolotti dispersi nel mare dei sentimenti mortiferi del fallimento amoroso totale. Dato di fatto. Lei ed io, scuola e poi lavoro, distanti per tre anni. Lei ed io. Lei convivenza con Luciano X, Pino X, Sandro ancora x. La sottoscritta convivenza con madre molte x, con due gatti e un criceto parecchie x soprattutto dopo che il criceto si era dato senza più venire fuori dal letargo (ancora oggi non so che fine abbia fatto) e i gatti avevano preferito disperdersi nel verde prato di una vacanza pugliese, piuttosto che ritornare a casa con la medesima…poi c’era lui, lui la x più grande di tutte le ics, la croce più catastroficamente dolorosa che un essere umano possa avere piantato nel cuore, (forse qualche vampiro lo troverebbe peggio, però…)

 

Lui, Mauro, per Vale, un essere immondo, per me, la reincarnazione di qualunque divinità fatta persona, da che mi potessi ricordare, diciamo da sempre. Tutto cominciava con lui, tutto quello che contava almeno, certo a parte madre e Vale. Mauro prima di essere un corpo composto da spalle dritte, capelli neri lucidi e ossessivamente curati, occhi verdi e piccoli nascosti da occhialetti da intellettuale, era stata voce rimbombante tra i corridoi di scuola. Come una sirena incantatrice, quel suono potente mi aveva trascinato a svoltare l’angolo tra l’aula e il bagno, punto di non ritorno. Qualunque manifestazione, qualunque riunione, qualunque disperato picchetto (inutile soprattutto) era lui, e dietro la sottoscritta, e a fianco Vale.

 

Erano stati anni di appostamenti fuori dalla sua aula, rincorse disperate per arrivare in tempo solo per fingere di passare casualmente, telefonate senza coraggio di parlare, e a fianco sempre lei. C’erano voluti due anni perché si accorgesse di questa tipa-segugio e la prima volta, il primo appuntamento era stato Mauro, Vale e un tipo amico suo. Dopo di allora quel poco che c’era, era bastato. Mauro passava sotto casa, suonava se gli andava, fischiava da una vespa sgangherata, salvo tirare dritto se gli andava di tirare dritto, senza neanche riconoscere sua madre. Mauro non era stato il primo ragazzo come lo immagina una ragazza. Non era stato appuntamenti teneri a guardarsi negli occhi. Erano feste affollate di amici spesso sballati, fughe improvvise. E abbracci, con parecchie altre tipe. Mauro era stato lacrime e sangue, molte lacrime e un po’ di sangue di due schiaffi, i primi dati da mia madre, in piena faccia per un ritardo Imperdonabile. Mauro era stato, ubriacarsi, come se non ci fosse un domani. Lui, ed io ad aspettare di vederlo lucido. Insomma un bel po’ di cose da dimenticare e poi improvvisi angoli di salite tra le discese. I sorrisi più improvvisi, la barretta di cioccolato per farsi perdonare, e un angolo di scorcio di mare, un posto mai visto prima, conosciuto dopo l’ennesima fuga in vespa.

 

Poi nulla. Era stato inizio e fine, capitolo aperto e chiuso tra un abbraccio e un bacio fugace e un odore restato dentro per notti. Odore di menta e dopobarba, odore dei diciannove anni. Poi, fine di scuola, fine di tutto. Io e Vale divise dall’università, per tre anni lontane, lei con un tipo che suonava di sera in un bar, io casa con madre e libri ed esami senza troppa voglia. Mauro disperso chissà dove. Incontrare ancora Vale per puro caso, era significato ritorno. “Cosa fai?” “Niente, tu?” “Cosa farai, niente tu?”. Lasciare l’università era stata una scelta comune, come trovare lavoro, cercare possibilità, e magari dividersi le spese, prendere casa insieme. Sembrava impossibile eppure ce l’avevamo fatta. Vale da sola, fiera e indipendente, io con il coraggio improvviso di lasciare casa.

 

Ripetizione a qualche ragazzino io, lei con la sua passione di sempre sfociata finalmente nel lavoro in un’agenzia di viaggi. Mauro, ombra, andate e ritorni e telefonate improvvise, e improvviso apparire, dalla festa per i ventitré anni che io e Vale avevamo scelto di festeggiare insieme, da sole. Quella sera dopo la pizza, le risate sedute sul pavimento di una casa ancora da sistemare, il primo squillo di telefono. Il Primo batticuore dopo anni. “E’ lui, è solo, dice che vuole vedermi”. Mauro chiamava, tornava con gli occhi bassi, il sorriso di sempre, e sembrava che le ombre tra di noi non si fossero mai dissolte. Era stato lui in fondo la parte più bella, le fughe da scuola, la prima festa, la prima bottiglia ingoiata e respinta al mittente dal balcone di casa. La prima mano che scivolava giù. La sigaretta che sapeva di strano. I sogni dell’estate. Mauro era stato la prima volta di ogni cosa, e la trappola impossibile da sfuggire.

 

Dopo anni ritornava senza chiedere nulla, tornava negli abbracci, nei ricordi, nell'odore sempre uguale. Restava il tempo di crederci ancora e poi spariva improvviso, lasciando dietro la delusione, la vaschetta di gelato bi-gusto versione familiare, e molti fazzoletti da buttare via. Era tornato improvvisamente quando ero in ospedale per un ‘operazione importante, dopo quattro anni di silenzio, dietro un mazzo di margherite giallognole, e la faccia da schiaffi. Tra la veglia e il sonno post anestesia l’avevo riconosciuto dall'oblò della camera, e credevo fosse una costruzione da delirio. Un bacio lieve, il profumo di sempre. “Come stai?” e il sangue fluiva come mai più, dall'ultima volta. Parole impossibili da credere, “mi sei mancata...” e la voglia di fidarsi.

 

Erano stati litigi con Vale, che continuava a non credere ad ogni apparizione, e ad ogni “Stavolta dice che resta”. Mauro, non restava mai, il tempo di infilarsi tra le lenzuola un paio di notti e poi svaniva. L’avevo ritrovato sulle scale, con la testa tra le mani il giorno in cui era morta sua madre. “Ora sono solo, completamente solo”. E avevamo pianto insieme per tre giorni. Tre giorni in cui eravamo rimasti abbracciati, e il mondo chiuso fuori. Fuori dal portone, sotto la pioggia con la fretta nelle gambe e “mi stanno cercando”… “Mauro che cazzo hai combinato stavolta?”... “niente”… Solo che per caso qualcuno lo aveva invitato ad una festa in discoteca e per caso aveva bevuto e fumato troppo, e per caso infilato la porta con un borsone sotto il braccio, che non era suo. C’ero io sempre, c’era Vale dietro, incazzata, sempre. Erano passati vent'anni. Vent'anni di storie finite così com'erano iniziate, per ognuno di noi. Compresa Vale, che con Davide ci stava provando per l’ennesima volta, e non riusciva a dare un senso a nulla, a lei, a lui al figlio che lui teneva dopo il divorzio da sua moglie. La sensazione che nessuno riusciva a crescere veramente, nonostante qualunque cosa, nonostante qualunque scelta.

 

Una sera come altre dopo l’ennesima giornata pesante a contare bollette e ricevute. Il viso di Vale più stanco del solito stava per dire cose diverse dal solito. “Forse dovrei accettare e andare a vivere con lui, tanto ormai...” La mia sigaretta aveva smesso di brillare per un attimo nel buio. Quel "ormai" da una che aveva sempre lottato per tirarmi fuori dalle cazzate non lo potevo accettare. “Oh Vale che dici? “Ormai” che senso ha? che parola è? E poi è, così vecchio…” Il suo sguardo una lama puntata negli occhi. “Vecchio?” “Silvia, Davide ha quarantadue anni, quanti anni credi che abbiamo noi? Quanti ne hai tu?” Cazzo, un attimo, mi ci volle un attimo per pensarci, era estate era l’estate ennesima di altre estati ennesime passate da sole, tra il lavoro le incombenze, i pensieri, i ricordi l’attesa di … “Quaranta, tra un mese” Aveva ragione. Era vecchio? Aveva la nostra età, che io e Vale eravamo coetanee divise da due giorni, entrambe di settembre.

 

Quarant'anni e ancora aspettavo una telefonata da vent'anni. Di riprendere l’ennesimo filo di un discorso da vent'anni. Vent'anni in attesa di venerare un uomo che prendeva e ripartiva ogni volta. E nella mente ogni volta il dolore di saperlo accanto come un’ombra, un ricordo. “Tu, vivi nei ricordi. Quando crescerai…” Vale aveva acceso la sua sigaretta e guardava altrove. Sapeva di dire verità, che le verità fanno male più delle bugie. “Ritornerà, come fa sempre, e tu aprirai la porta, come sempre. Aprirai il cuore e pure le gambe, come sempre” Adesso il suo sguardo sembrava volesse ferire, leggevo il disprezzo che non meritavo. “Ora sei ingiusta, anche tu hai i tuoi errori alle spalle, no?” “Si ma tu perseveri nei tuoi, sei imbecillemente diabolica, anzi no, solo imbecille”. “Vaffanculo” alzarmi era la cosa che avrei voluto fare, se non mi avesse impedito di farlo. “Ora mi ascolti, che sono passati vent'anni così. Ricordi l’anno scorso? Dovevo partire, c’era quel posto da visionare per l’agenzia? Ti avevo chiesto di venire, poteva essere un’occasione, per lavorare, per distrarti. Mi avevi detto ok, poi. Poi aveva chiamato lui, Silvia, cazzo, ti ho aspettato per due ore alla stazione. Non sei mai venuta. Sai che cosa? Ha fatto bene tua madre quella volta, quella volta dello schiaffo, avrebbe dovuto chiuderti in un cesso e buttare via la chiave, tu, tu avresti fatto qualunque cosa per lui. Tu avresti perso qualunque cosa per avere lui…”

 

E non ci eravamo più parlate per mesi. E Mauro aveva l’ennesima scusa per ritornare, prendersi duecento euro e sparire, come era venuto. “Stavolta, deve essere diverso. Non dargli nessun’altra possibilità. Cresci Silvia, cazzo, cresci”. Mentre le lacrime le scendevano sul viso sapevo che parlava a me, ma anche a sé stessa. “Ok, ok, ora basta. Mauro non tornerà, ma se dovesse tornare, basta. E tu, non voglio più sentirti dire la parola “Ormai”, ok?”. Stavo per poggiare la spalla sulla sua, quando lo squillo del telefono ruppe l’aria. Ci guardammo per un attimo mentre tentavo di alzarmi e lei mi tratteneva. Si tirò su prima di me e afferrò il cordless. Vidi un lampo sulla sua faccia mentre premeva un tasto: “SI? Oh, sì Oddio, sai che, Oh, non so come dirtelo, Silvia, è, è morta. Eh una cosa improvvisa” mentre parlava un po’ tratteneva una risatina un po’ asciugava le lacrime “Eh si che vuoi farci, ce ne faremo una ragione…” Il telefono era volato per terra mentre lei mi guardava con aria di sfida. Mise la sua faccia sulla mia così vicino che sentivo l’odore della pelle e delle lacrime: “Zitta ora, non devi dire niente. Io, parto domani mattina, lavoro, io, Sharm, e torno tra due mesi. Davide può andarsene affanculo, lui, le sue paturnie, il suo figlio viziato. Per quanto riguarda te, verrai con me. Metti la tua roba in una borsa e non replicare. Sei morta, non fiaterai finché non saremo atterrate. E la nostra vita ricomincerà tutta daccapo, chiaro?”.

 

Non sapevo se ridere o piangere, le stampai un bacio sulle labbra, spiazzandola: “Ti odio” le gridai ridendo, forte, come non avevo riso da quando avevamo vent'anni ed eravamo troppo ubriache per renderci conto, che la vita era un solo brevissimo attimo, che i ricordi dovevano prendere il loro posto, da parte, e fare spazio a noi, alla vita, al presente, all'oggi, quello che entrambe meritavamo. Io e Vale, la mia migliore, peggiore amica. Tutto il resto poteva aspettare un’altra estate…








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