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29 Agosto 2015
Lui che guardava...
di Stefania Castella



Lui che guardava...
una scena di
Viridiana

È così caldo fuori, ma non me ne accorgerei se anche non lo fosse. Aria immobile, e cielo da perdersi. Guardo dentro, una stola leggera di seta, posata sul letto. Scivolerà sulle spalle, dalle spalle ai piedi, quando non ci saranno più flash e sguardi incollati addosso. Rifletto il mio viso allo specchio cercando i miei quarant'anni, barattati. Per cosa? Leggo i miei occhi, avvicino, nascondo, quasi tutto, la paura di più. Spero di non aver socchiuso gli occhi, spero si veda bene la scollatura, che risaliti il diadema tra i capelli. Cosa voglio di più? Cosa avrei potuto volere di più? Nulla, forse solo tenere più a lungo a memoria le parole di mia madre: “Attenta a desiderare troppo qualcosa, che qualche volta i desideri si avverano. Purtroppo”…

 

L’ho capito piano piano, quando credevo di sapere tutto, e non sapevo niente, credevo di sapere cosa volessi. Volevo essere qualcuno, a tutti i costi, a qualunque prezzo. Le luci addosso, e ci credevo talmente tanto che al provino non avrebbero detto no, nessuno poteva dirmi di no. Quando la voglia di fuggire e arrivare è talmente forte, faresti qualunque cosa per guadagnarti uno straccio di possibilità, avrei fatto qualunque cosa per quelle possibilità, gli stracci non mi sono mai piaciuti…

 

Roma era bella, possibilità, “che ci facciamo a stò paesello mà? A Roma devo andà, per tentare al cinematografo. Poi vedrai, mi vedrai scendere le scale con la folla che si apre intorno”. Questo volevo, e quando ho visto lui, ho pensato “ecco la mia occasione”, come un film, come era successo a quell'americana che aveva sposato un Principe, che sogno. Addio al cinematografo, la vita da signora, tu pensa la fortuna…Che sogni che sognavo, e mi brillavano gli occhi, come brillavano i suoi, quando mi guardava in mezzo alle altre. Una donna vuole essere una, in mezzo alle altre, vuole essere scelta in mezzo alle altre, credevo si potesse scegliere pure per amore, invece mi sceglieva come si sceglie una preda, lui cacciatore, io in trappola. Agnello sacrificale.

 

Non era né bello, né brutto, potevo innamorarmi, avrei potuto se avessi avuto tempo, se non ci fosse stato intorno il mondo che mi stava costruendo. In fondo era quello che volevo, serate a teatro, abiti di lusso, gioielli luccicanti di brillanti veri, regali, che avrei pagato, e non con il denaro. Quel mondo di luce, di amici che contano, che ignorano, forse. Lo dovevo capire da subito, dal primo piede messo sulla nave, in viaggio di nozze. Quella suite, un’affacciata enorme, e intorno la bellezza, quadri, tappeti, e quella mano che allungava qualcosa al cameriere… “Fatti una doccia amore mio”, la sua voce ferma, ordinava, decideva, vestiva, spogliava la sua bambola, comprata e poi svenduta, immersa e dispersa.

 

Si sedeva, e guardava altre mani che si allungavano, altri sudori scivolare sul mio corpo dilaniato, sporcato, infettato dalle mani lascive di altri desideri. Il mio corpo perfetto, storpiato dallo schifo, la mia mente oltraggiata dalla vergogna. Un corpo, un corpo e basta. E pensare che mi amava. Lo so.

 

La prima di una prima volta, la prima di altre mille volte, incubi di caccia notturna, a volte da solo a volte insieme. “Scegli pure amore mio”, per lasciarmi la lunghezza di una corda che non soffoca del tutto, come una cagna attaccata al padrone. Eleganti, distinti, orripilanti, grassi, obbrobriosi, distesi, affannati, disgustosi. Buio, vergogna, dolore “Girati, voltati. Guardami…” Poi luci ad attirare come si attirano le falene, a cui non puoi sottrarti, non sai rinunciare, brava bambina, ti sei guadagnata un altro paio di carati, perdendo un altro pezzetto di anima. Lo schifo, la rabbia, un sorriso per la camera. Dentro, fuori, mondi da urlare, spaccare, distruggere. Sciolgo i capelli, fumo ancora, respiro boccate di ossigeno, spalle che ora accarezzo, con mani diverse. Ora “amore mio” ha un suono che sembra più vero. Con lui è diverso, tutto è diverso, mi ama, lo amo, ci credo, mi perdo, lui non è l’uomo che guarda, che gode il piacere degli altri, lui sa amare ed esplode con me. Se ne accorgerà, lui, sentirà che è diverso stavolta, che ogni gemito è vero e reale, e adesso? ...

 

La paura mi stringe, ma la luce è più forte, la calma oltre gli alberi e il cielo, con le tue mani intorno mi sembra possibile. Andare, fuggire, spiegare, lasciare tutto alle spalle. Addio, addio alle lenzuola di seta, al freddo dei marmi, ai velluti distratti di deformi, enormi, divani, non ne voglio più, voglio soltanto te. Parleremo con lui, i miei occhi puntati nei suoi e non avrò più paura con te accanto a me. Voglio l’amore che merito, ricominciare, dimenticare tutto. È estate a Roma, estate di luce, calore, fontane e via vai. Di aria sospesa ad aspettare qualcosa. Troppo di tutto, in questo salone, troppi pensieri, ricordi e dolore, e fucili, contati ne manca uno? Uno dei suoi, di Lui cacciatore, preciso, non sbaglia mai un colpo, non molla la presa, non lascia la preda. Uno sparo ancora e ancora uno, velluto distratto colmato di sangue, arazzi oltraggiati di pezzi di carne, resterà il nero di inchiostri, di foto macchiate che marchiano a vita.. la vita.. l’amore creduto, implorato, disperso. Il rosso di una storia, la nebbia di una vita, mancata salvazione. Due occhi che non chiedono che “Amore, perché?”..

 

Roma, agosto 1970.








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