Rss di IlGiornaleWebScrivi a IlGiornaleWebFai di IlGiornaleWeb la tua home page
Sabato 13 settembre 2025    redazione   newsletter   login
CERCA   In IlGiornaleWeb    In Google
IlGiornaleWeb

RaccontiStefania Castella

CONDIVIDImyspacegooglediggtwitterdelicious invia ad un amicoversione per la stampa

05 Settembre 2015
Amoressìa, un buco allo stomaco, un vuoto nel cuore.
di Stefania Castella



Amoressìa, un buco allo stomaco, un vuoto nel cuore.
anoressie

Il viso sul pavimento, sento il freddo entrare piano, mi rannicchio, trattengo il respiro, la luce s’infila oltre la porta, passi piccoli, lenti, irregolari, scalzi, mi sposto di lato, mi stacco da terra, ho bisogno di chiudere un attimo gli occhi. Sorrido ora, “non ho paura, non ho più paura”, arretro, mi sollevo, corro, la sorprendo, “Mom” mi chiama, non sa dire il nome, si volta mentre l’afferro, la tengo stretta forte, il cuore passa dal suo al mio, batte forte, larghe pupille di quando ti spaventi sorpresa all'improvviso, ride, ride forte, forte, che si ride anche di spavento, uno spavento bello, che non fa paura, che non fa più paura.

 

Mi chiamo Monica, ho quasi trent'anni vivo da sola finalmente e non mi sono mai sentita sola neanche un attimo da quando sono sola, e nella mia vita è piombata Lilla, una peste di riccioli biondi faccetta tonda e sgambettate, senza orari, entra esce da casa sua a casa mia, come se fossimo alla distanza di un secondo, anche se ci divide una vita intera. Lei è la figlia di un’altra madre, che non sono io, una madre che forse non tornerà più, come la mia. Lilla in realtà si chiama Camilla, ha tre anni e mezzo e un padre che la ama tanto, che vive di fronte casa mia e da un po’ vive praticamente in casa mia, causa: Lilla.

 

Adesso posso dirvi, sono Monica, ho trent'anni ho smesso di smettere di mangiare smesso di smettere di volere vivere, perdonare, accettare. Come voi. Nel centro che frequento, loro aiutano me io aiuto loro, eppure…

 

All'improvviso lampi, come sogni violenti, segno che non dimentichi e poi agganci all'improvviso. Succede, mentre sei lì a parlare con qualcuno o magari, a girare un caffè, gira gira e ritorni bambina tra altre bambine. La stanza quadrata, la fila per la mensa, uno schifo di sugo, una pasta molliccia. Meglio di niente. Meglio la fila ordinata, il silenzio rotto soltanto dal rumore di un cucchiaio di legno sul bordo bisunto di un pentolone d’acciaio. Imparare a fare la fila per bene a non lamentarsi, a stare ordinate, tenere i gomiti fuori dal tavolo, finire il piatto altrimenti resta per la cena della sera e il pranzo del giorno dopo. Sbarre alle finestre e il sole fuori, la vita fuori.

Avevo sei anni o sette, credo, ma solo contando il tempo in termini di anni, in realtà ne contavo nel cuore trecento di più. Sembrava un incubo, ma era solo una piccola parentesi. Sentire le altre piangere, chiamare la mamma, il papà, guardavo non capivo, quella bruttura era un posto dove nessuno picchiava per nulla, nessuno strillava, beveva, dove non dovevi nasconderti, come era stato prima.

 

Lei solo una figura, piccola magra, docile, inutile, ancora più piccola, più docile, più inutile, tra le mani giganti di quell'uomo gigante. Un angolo buio a ripararsi da un piatto, una scarpa, uno sguardo tagliente. Paura, sudore e lacrime da trattenere. Notti abbracciate a sperare di restare per sempre così, da sole, che non tornasse mai più. Mangiare soltanto se lui era fuori, in fretta prima che arrivasse. Poi i momenti di calma ancora più assurdi, ancora più vuoti, in cui esistevano soltanto lei a bramare per lui.

 

È stato a quel tempo che alzarsi di notte ingoiare ogni cosa, serviva certe volte per riempire la testa, intasarla evitando di avere pensieri. Mangiare da scoppiare, e poi sentirsi scoppiare. E poi un giorno mentre ciondolante guardavo i miei piedi pensando soltanto al cartone alla tele, i rumori più forti sembrarono troppo forti per esser soltanto rumori. Non ricordo più nulla, passi di gente, voci sconosciute, mani che mi sollevano, mi dicono “va bene, va tutto bene, ma adesso andiamo”. Il mio zaino rosa tra le mani di un uomo in divisa, sorride mi dice, “tranquilla” andare in auto, ma dove, ma come, per quanto tempo? Nessuno parlava, nessuno diceva, soprattutto dove fosse mia madre. Lo capii dopo, molto dopo che non sarebbe tornata mai più. E portai dentro il rimorso di non averla saputa difendere, di non averla potuta salvare.

 

Il portone rosso, le suore accoglievano tutte. Bimbette tutte uguali, capelli raccolti e trecce ordinate, una mano sulla testa e le trecce finirono insieme ad altre trecce, in un grosso sacco marrone. Era la vita da quel momento in poi, la prima di tante altre volte in cui ricominciare, senza sapere, senza capire. Diventare bimba lì dentro e poi ragazzina tra altre ragazzine, non avere nessun posto dove andare per le vacanze, non tornare in nessun luogo per le feste di Natale. Imparare, a nascondersi ancora, per non farsi vedere a sputare lo schifo che davano a pranzo. Nascondersi dal dispetto di una tipa più sveglia, imparare ad avere la giusta compagna, per non andare a letto con il segno di un pugno in un occhio, che le ragazze quando vogliono, sanno darle come i maschi, come quelli più grandi.

 

Avevo sedici anni quando una donna magra e dall’aria svampita varcò quel portone, accanto l’omone che aveva ingoiato la mamma. Volevano portarmi via, stare insieme come una famiglia. Non servì a nulla urlare aggrapparsi alla gonna incredula di quella suorina custode al portone, nessuna l’avrebbe fatto, tutte sarebbero scappate via da quel posto, col sogno di una vita in una casa reale, ma io con quei due non ci potevo tornare. Non potevo decidere e la mia stanza fu accanto alla loro. Rosa, inutile, ordinata, ordinaria. Sembravano veri, gentili, normali come nulla fosse mai stato prima. Lei insulsa, sottile incapace di cucinare di rassettare, di fare cose di vita che sapessero di vita. Non sapevo da dove uscire, quale galera fosse meglio o peggio di quella inutile silenziosa reclusione.

 

Lui non parlava si limitava a mangiare, grattarsi le palle, uscire al mattino, tornare ubriaco la sera come prima, come ieri, tanti anni prima, passati praticamente da mai. Lei lavorava per tutti poverina, un salone piccolino, manicure, tinture, cercava di arrangiarsi, ma era solo un’altra povera vittima tra le mani del mostro. Come me. Mi faceva pena, cominciai ad aiutarla, imparai a far la piega, guadagnavo qualcosa, certe volte mi sembrava pure divertente. Ma dentro covavo ancora il dolore, smettere di mangiare, come smettere di esistere. Smettere di dormire, non poteva funzionare, ci provavo ma ogni volta crollavo di colpo. Sentivo le voci di loro venire da lontano, la scuola da riprendere, amici da mettermi intorno, lei diceva “e lasciala studiare” lui riteneva fosse inutile meglio non perdere soldi, clienti… Vita decisa e gestita dagli altri, non potevo avere nessun controllo tranne che sul mio misero inutile corpo. Nessuno si accorgeva del cibo sputato, raccattato, buttato via, della vita che avrei buttato via. La festa dei diciott'anni la passai con due sgallettate conosciute in un istituto al quale mi era iscritta per non sentirli discutere. Vita inutile, amiche inutili.

 

Contavo le mie ossa ma non era abbastanza. Quando entrai in ospedale la prima volta, mi sembrò l’ennesimo posto migliore di casa. Non sarei mai più andata via. Incazzarsi, sbattere vassoi e porte, vedersi allo specchio voltarsi, e non riconoscersi, poi scoprire che non sai veramente se vuoi uscire fuori, da te stessa, da lì da ovunque, da qualunque posto. Da lì al centro, dal centro alle vite lontane da casa, aprire gli occhi ed avere un diploma, vent'anni le gambe lunghe abbastanza da scappare, da tutto, da tutti, cercare un posto dove sentirsi di vivere la vita che si sceglie. Guardarsi cambiate, capire che qualcosa non andava ancora, il centro d’ascolto fu l’ennesima tappa.

 

Altre simili ombre, da incrociare, conoscere, specchi una nell'altra per riflettere ognuna il proprio dolore nelle altre. Cominciava a incrinarsi qualcosa. Mi chiamo Monica ho ventotto anni…mi chiamo Monica ho ventinove anni…

 

L’appartamento in affitto, un lavoro come sciampista era il massimo della vita, e un buco nel cuore ancora da colmare. Mangiare, da sole, decidere, scegliere ricominciare, smettere. Non volere nulla, non volere nessuno, non fidarsi di nessuno. Ancora. Fu tutto capovolto, un unico primo giorno, in cui un pianto di bimba distolse la mia vita, dall'inutilità in cui cercavo di uscire. Talmente forte, da tirarmi fuori dalla profondità di un divano per uscire sul pianerottolo. Avevo deciso che il gruppo d’ascolto poteva aspettare quel giorno. Fuori, c’era una cosetta bionda tra le mani di un padre a gridare col sedere piantato per terra, e lui col viso disperato. Un solo sguardo bastò a capire che era più stanco che cattivo “Mi scusi, è che, siamo arrivati ieri sera e stamattina ho ancora da tirare fuori le cose dall'auto e lei non ne vuole saper. Non so che cosa…” Mi accovacciai standole ad altezza di naso per guardare negli occhi quella meraviglia incazzata di brutto. “Cosa c’è?” lei si fermò di colpo per guardarmi diritta negli occhi. “Il cerchio, il cerchio!” si toccava la testa battendo i piedi aveva un cerchietto con due orecchie di gatto mollicce che tiravano di qua e di là, glielo sfilai guardandolo, si fermò di colpo. Tirai bene perché quelle orecchie riprendessero la forma da gatto che dovevano avere, ed ecco, aveva smesso di urlare, si apriva al sorriso più bello mai visto. Quel fulmine improvviso colse tutti e tre da quel momento in avanti.

 

Piero, era insegnante alle medie del posto, trasferito in città da poco, una moglie dileguatasi dalla nascita della piccola peste. Un giorno fu la riunione, un altro la febbre, tornare da lavoro e aspettarsi le manine di Lilla battere alla porta fu un crescendo. Vederla cercare tra le ante di casa un biscotto, un dolcetto, pensare che prima non ne avrei tollerato nemmeno l’odore… “Perché non facciamo una totta?” sapevo che prima o poi la torta sarebbe arrivata. “E chi la mangia la torta?”. “Io, mom e pà quando torna”. Bisognò uscire per comprare uova, farina, scagliette e zucchero a velo per impastare come mai in vita mia. E bisognò uscire mille altre volte, per le patatine, la pizza, le cose che sanno di vita. E guardare ciambelle nel forno salire oltre il bordo, capire che esisteva la meraviglia, che esisteva un sapore buono che si poteva riconoscere, buono come lo zucchero sparso dovunque, buono come gli occhi di un padre che torna di sera e non puzza di vino.

 

Esisteva un mondo normale, dove nascondersi voleva dire giocare, aspettare sorridendo, correre di felicità senza nessuna paura. Mi chiamo Monica, ho trent'anni, e sono come voi, sono stata come voi, ora non ho più paura. Di crescere, di farmi spazio, di assaggiare, di mangiare… Riprendere ad andare al centro fu una vittoria, un giorno dopo l’altro.

Mio padre non l’avevo più visto da quando dopo aver scontato i suoi miseri anni di galera per un omicidio sempre negato, era tornato a cercare di fingersi padre e poi dileguato in un buco di chissà quale posto insieme ad un’altra squallida donna. Mia madre l’andremo a trovare insieme tutti e tre con Piero e la bimba quando sarà più grande e capirà cose che i bambini non possono capire, che i grandi non sanno spiegare, che spesso non vogliono vedere. Ora è il momento di riprendere a vivere, sentire i denti fare il loro dovere, veder ricrescere le voglie come i seni e i capelli che cadevano senza forza. Ora è solo il momento di giocare, di nascondersi e fare la conta, correre veloce, sentirsi vivere, gridarsi “ti prendo” e abbracciarsi felici. Ora “non ho più paura, non ne avrò mai più…”








  Altre in "Racconti"