Rss di IlGiornaleWebScrivi a IlGiornaleWebFai di IlGiornaleWeb la tua home page
Lunedì 03 novembre 2025    redazione   newsletter   login
CERCA   In IlGiornaleWeb    In Google
IlGiornaleWeb

RaccontiStefania Castella

CONDIVIDImyspacegooglediggtwitterdelicious invia ad un amicoversione per la stampa

02 Ottobre 2015
Nella rabbia il perdono...
di Stefania Castella



Nella rabbia il perdono...
Madre e figlia

28 Novembre 1995.

 

“Auguri, buon compleanno, per favore almeno oggi lascia stare…” con la voce appena appena percettibile Valeria, la mia coinquilina, mi aveva richiuso il giornale sulla faccia impedendomi di leggere il titolo, l’avevo appena intercettato: “Giovane donna massacrata in casa dal…” sospesa a metà dalla sua fretta di chiudere ma tanto non avrei avuto bisogno di leggere avanti. Sapevo già. Quella era mia madre, quello mio padre. Da settimane non si parlava d’altro. Il paese piccolo non sfuggiva alla curiosità dei giornalisti, qui dove tutti si conoscevano la notizia dell’insegnante di recitazione bella come un’attrice, uccisa dal marito aveva sconvolto la comunità.

 

Dopo due settimane ancora non avevo realizzato e soprattutto ancora non sentivo il dolore forte e l’abbraccio caldo delle lacrime che non riuscivano a scendere. Lacrime mancanti che mi facevano sentire in colpa, tremendamente in colpa. Avevo vent'anni, il primo corpo senza vita che vedevo non avrei mai creduto potesse essere quello di mia madre.

 

Marinella Alberti 40 appena compiuti insegnante di recitazione lei, Marco Bernardi 42 architetto innamorato perso, lui. Nessuno riusciva a crederci di sicuro io non avrei mai potuto, io conoscevo quello che gli altri non potevano neanche intravedere. Sapevano di mio padre che era attento, preciso, pignolo, che non dava confidenza facilmente, poche parole, pochi incontri, poca vita sociale, passata perlopiù tra lo studio a due passi da casa, e noi, la parte più importante della sua vita. Non conoscevano il suo sguardo innamorato, smarrito a cercare lo sguardo di lei sempre altrove. Non sapevano delle giornate passate al suo studio a guardare coi gomiti incrociati la meraviglia che creava disegnando, dondolando sullo sgabello alto, guardavo le sue mani disegnare, c’era il sole ovunque tra quelle mura e sulla sua bella faccia. Quando tirava su lo sguardo trasparente verso me, io ci vedevo lo stesso sguardo innamorato di quando osservava lei, nessuno mai mi avrebbe guardata così, occhi d’amore e ammirazione, dolcezza infinita, quando tentavo di armeggiare con le matite, qualunque linea sembrava perfetta ai suoi occhi.

 

Nessuno poteva saperlo, come nessuno poteva conoscere la bella Marinella oltre la porta di casa. Il freddo che portava intorno a sé, il viso fiero, bellissimo, ghiacciato, mai uno sguardo di affetto, una piega di tenerezza. La smorfia perennemente tirata come se ogni cosa intorno le creasse disgusto, come se nulla fosse stato mai alla sua altezza. Insoddisfatta, dura, deleteria, insopportabile, gelosa. Ossessivamente gelosa, ossessivamente esagerata in ogni manifestazione, tranne che per la felicità.

 

Raramente la ricordavo felice, sorridente, soddisfatta, presente. Troppo occupata con le lezioni, a preparare le lezioni, ripetere le lezioni, organizzare le lezioni, impartire le lezioni, pure a noi, continuamente. Sognava il cinema da quando appena sedicenne, la sua prorompente bellezza e la sua prepotente madre l’avevano spinta ad un concorso di bellezza per cercare di arrivare a conquistarsi una possibilità. C’era da capirlo forse, la nonna era sola, raccontava che lui era scappato via con una ragazzetta a cui faceva da insegnante privato, una appena appena diciottenne. Che vergogna, che umiliazione, per lei. In qualche maniera bisognava riprendersi e ricominciare e la donna ricominciò dalla figlia. L’occasione fu la particina ad un filmetto di second’ordine che poteva essere un’occasione. Valse solo qualche passaggio tra braccia grasse e inutili spot alla tv, finché la bella Marinella non era rimasta incinta.

 

Ho passato la vita a credere di essere stata un errore, un intralcio e mai una volta lei aveva smentito la mia convinzione. Bellissima, viveva con l’ossessione dell’abbandono, con la paura di invecchiare, di restare sola di non essere più il centro del mondo, un mondo che potevamo essere io, e mio padre, non secondo lei evidentemente.

 

Di quegli anni ricordo soprattutto la mancanza. Lei non c’era alle riunioni di scuola, al saggio di danza, davanti l'uscio della scuola o la sera accanto al letto, come succedeva nei cartoon. Quante balle che riempivano la testa, ce n’erano persino che davano bacetti sulla fronte e restavo ad immaginare di stringere quel profumo buono forte, forte. Ricordo le liti quando si convinceva che lui avesse un’altra, gelosa fino allo sfinimento, anche in quello, teatrale e senza controllo, piangeva disperata, lanciando quel che aveva a portata di mano, il finale di solito prevedeva uno svenimento o un colpo di coda da grande diva con porta sbattuta da far tremare i muri. C’erano volte in cui fingevo di non vederla, all'angolo in occhiali scuri, a spiare le mosse di lui fuori dallo studio. La cosa più imbarazzante cui potessi assistere uscendo da scuola con le amiche.

 

 

Anche quel giorno c’era stato un litigio forte, lunghissimo, diverso dagli altri. Prima del fatto. Mio padre aveva passato mesi ad organizzare la sua festa di compleanno, 40 meritavano una grande sorpresa, aveva rintracciato tutte le sue amiche pregandole di tenere il segreto, della famiglia non c’era nessuno, entrambi figli unici e con genitori e parenti anziani o dispersi troppo lontano. Insieme avevamo scelto un bracciale pieno di brillantini e pensato ad un fine settimana da passare in montagna.

 

Lui era eccitato all'idea che l’avremmo sorpresa e forse resa felice, almeno per una volta. L’ora x era stata stabilita dopo le lezioni, prevedevamo sarebbe rientrata intorno alle 19. Il suo ingresso era stato seguito dall'esplosione delle voci delle amiche, squillante, gioioso, chiassoso, anche se in realtà non erano che cinque o sei comprese due alunne del corso dell’ultimo anno. Mia madre non credeva troppo nell'amicizia tra donne. “Le donne sono troppo competitive” diceva Lei, l’esempio numero uno. Era riuscita a tenere bene la parte della donna stupita e lieta della sorpresa, tanto che ci avevamo creduto, almeno fino a che non erano andate tutte via. Niente era rimasto al suo posto, dal rumore che avrei sentito dalla parete della mia camera. Urlava senza freni, piena di rabbia, pensava lui l’avesse voluta deridere, che avesse fatto tutto quello per umiliarla “per ricordarmi che sono invecchiata? Per mettermi in ridicolo davanti a loro? Hai chiamato pure quella Manuela del corso, che c’entra quella ragazzetta, cos'è ti piace pure quella, he?” Tutto era stato calcolato alla perfezione tranne lei, la scheggia impazzita che avrebbe distrutto tutto, passando come un trattore su un attimo di apparente felicità. Parole volate senza senso, gelosia, frustrazione, la rabbia di una donna con un dolore che non sapeva gestire, malata dentro, forse.

 

Quel giorno dopo, sabato mattina, lui era uscito di casa presto, io in bagno in un lago di sangue senza una parola, una lettera, senza poter capire, avrei ritrovato il suo corpo riverso sul pavimento, con la testa reclinata sul petto, uno squarcio nella pancia e intorno ancora l’odore dell’alcool della festa mescolato con il rancido del sangue. Non mi mossi per non so quanto tempo, senza avere il coraggio di fare un passo, senza una sola lacrima. In capo ad una settimana le indagini avevano stretto un laccio intorno all'unico uomo che secondo un copione stabilito non poteva che essere il colpevole. Nonostante non ci fossero prove, Femminicidio si sarebbe detto poi, cose che accadevano all'ordine del giorno.

 

Quando cercai di discolpare mio padre, nessuno mi ascoltò. L’unico sguardo compassionevole fu quello di Laura una giovane assistente del commissario con cui più volte avevo parlato. Lei forse poteva capire, forse poteva ascoltare. La sua telefonata dieci giorni dopo il fatto, me lo confermò “se c’è qualcosa che credi possa servire, ti ascolterò” Finalmente qualcuno mi avrebbe prestato attenzione. Raccontare tutto quello che pensavo, le fece salire  il dubbio che fossi solo una ragazzina che amava troppo suo padre per vederlo dentro. Non era così. “Ci vogliono prove, l’arma del delitto non è ancora saltata fuori e questo può aiutare” Laura parlava fumando abilmente senza mai togliere gli occhi dai miei. Volevo fidarmi, nonostante fossi stata cullata dal seme della diffidenza dalla donna che mi aveva cresciuta.

 

Dovevo fidarmi. “Mia madre scriveva, forse… dovremmo trovare le sue cose, magari ha lasciato delle parole che possono aiutarci…” “Avrebbero trovato qualcosa se ci fosse stata non credi?” il piglio autoritario non le stava bene.

 

“No, se mia madre non abbia pensato prima di portare via i suoi fogli, i quaderni, le sue cose, quelle a cui teneva di più”. “Cose a cui teneva di più?” Probabilmente ad una persona normale il fatto che non fossimo noi la cosa a cui mi madre tenesse di più, provocava attimi di confusione. “Spesso si rifugia in collina, nella casa dove ha vissuto da piccola. Mia nonna, l’ultima ad abitarci adesso è chiusa in una specie di clinica. Lì in quella casa, mia madre ci torna quando ha voglia di stare sola.” Ci torna, avevo detto, parlandone al presente come non fosse mai andata via. “Bisogna cercare lì allora” Laura in piedi, nascosta in una nuvoletta di fumo, era pronta a partire, determinata più di me.

 

La casa, era una villetta dispersa tra altre simili, luogo abbastanza desolato, perso nel verde lontano dal caos del centro e dai pettegolezzi del paesello. Entrarci fu immergersi in parte di quell'infanzia fatta di feste comandate, nonna a suonare il piano e mamma ad esibirsi immancabilmente. Sembravamo quasi felici. La stanza di mia madre, essenziale, ordinata, a vista nulla, in un armadio a lato però si celava tutto il mondo di parole lasciato da lei in anni e anni di fogli su fogli. Cominciammo a tirare fuori quaderni a caso, date perse nel tempo, amori da adolescente. Feste con le amiche. “Mamma piange da quando papà è andato via. Lei dice che quella lì era più giovane. Io non voglio diventare mai vecchia Voglio essere giovane e felice e ricca e renderla felice” Le parole infantili di una ragazzetta che voleva rendere soddisfatta sua madre: “Mamma dice che devo dimagrire se voglio passare il provino, è la mia occasione…” Mia madre. “E’ bello con gli occhi chiari che sembrano un lago. I capelli scuri e il naso perfetto. Siamo stati al mare mi ha presa sulla spalle sono così felice, forse sono …” forse innamorata. Mia madre, la donna fredda, senza cuore, innamorata. “Non so come fare amore mio, ti sento dentro già. Non posso dirlo a mamma, che direbbe? Piccola mia ti terrò con me, stretta a me, nessuno ci separerà”. Mia madre incinta, mia madre che mi stringe, come mai avrebbe fatto in realtà. Leggevo quelle parole e mi sembrava di incontrare quella donna per la prima volta. Una donna innamorata, una donna che sogna, che sa amare. Una donna che vuole rendere felice sua madre, che non vuole deluderla…Leggevo e sentivo che le lettere diventavano confuse mentre scendevano calde le lacrime fino a bagnare i fogli.

 

Laura mi guardò avvicinandosi, mi strinse forte. “Avrei potuto fare qualcosa” dissi piano. “No tesoro, non avresti potuto fare niente. Se come pensi tu, tua madre ha voluto togliersi la vita, nessuno avrebbe potuto salvarla. Andiamo avanti…”

 

“Mamma mi ha regalato uno specchio, dice che devo essere in ordine, sempre, questa è la nostra ricchezza. Ma a me non mi frega niente del film, del regista, del produttore che allunga le mani. Mi fanno schifo tutti, io voglio solo te piccola mia, che cresci nella mia pancia. Lei, capirà”. “Credo che mia nonna non avrebbe mai capito” solo questo dissi e nel frattempo una data...

 

31 ottobre 1995

 

“Basta sono stanca, non ne posso più. Lo specchio riflette ormai la mi faccia schifosa e inutile non ho saputo fare nulla, non ho saputo dare nulla. Ho rovinato tutto, sempre. La vita di mia figlia che mi odia, mio marito che forse ha un ‘altra, e se fosse così lo capirei, davvero. Forse sono veramente malata forse sono matta, mi manca qualche rotella come mia madre, forse finirò rinchiusa come lei…Mia madre, l’ho così delusa e …Basta non ne posso più. È Finita”. “Lo specchio” pensai. Lo specchio che aveva sempre affianco, quello della nonna, grosso e sottile, tagliente. Mia madre può avere usato quello. “So che sembra assurdo. Gliel'ho visto fare una volta. Una volta ha rotto per sbaglio uno specchio e per evitare la sfortuna, ha buttato tutti i pezzetti nel water. Diceva che i pezzi andavano dispersi nell'acqua.

 

Probabilmente ha rotto lo specchio, l’ha usato come una lama e poi è riuscita a buttarlo via. Se è così dobbiamo tornare a casa e controllare”.

 

 

Laura lo trovò folle: “Si mia madre era folle, non sai quanto …” Tornare a casa oltrepassando i sigilli messi dalle autorità, fu un rischio soprattutto per lei, ma Laura era dietro di me, in cerca di qualcosa, niente l’avrebbe frenata. La vidi infilare un paio di guanti e sorridermi “L’ho visto fare tante volte…” infilò le mani nella tazza e senza farsi male raccolse due, tre, quattro pezzetti uno incastrato nel legno del sedile, con una macchiolina di sangue. “Se siamo fortunate…”

 

Uscimmo da lì come disperse con la speranza di poter essere state utili. Passai molto tempo ferma immobile a piangere e basta, prima di ridare la libertà e la dignità che spettava a mio padre.

 

28 novembre 2015.

 

Il mio compleanno lo festeggio qui. Quarant'anni, l’età che aveva mia madre quando è andata via per sempre. Per me non è una data come le altre ma la malinconia scivola, restando attaccata alle manine appiccicaticce di caramello della piccolina. “E’ stata bella la festa vero mamma?” “Si lo è stata davvero”. “Mi racconti la favola della signora bella, mamma?”. “Si, ma l’accorciamo un po’ che è già tardi”. “C’era una volta una bella signora. Faceva innamorare tutti quando recitava, era veramente bellissima. Era la più bella di tutte, la più brava tra tutte e…” “Mamma, perché sei triste?” “No tesoro, non sono triste, sono felice, tanto, va bene? Adesso però dormi Marinella, è così tardi”.

 

Bacio la fronte di mia figlia e perdono mia madre da madre, e perdono tutti anche me.








  Altre in "Racconti"