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23 Ottobre 2015
My name is Luka...
di Stefania Castella



My name is Luka...
vite sole

Stringimi forte, forte, la tua testa è così piccola tra le mie braccia. Mi fa sentire come se potessi salvare il mondo e non posso, ma salverò te o me stessa non lo so. Non sono certo meglio di tanti altri, anche io urlo qualche volta. Se penso a me adesso o penso a me bambina. Oddio non ti lascio credimi, non resterai qui tra queste mura maledette… Stanca, sono molto stanca, mentre le dita di Angelica incespicano tra i tasti, la sonata di Clementi, batti, lascia, tempo, tempo allegro, andante no, lì no, lascia andare quella… lascia andare, lascia andare… Porta che sbatte, urla, rumori, tonfi. Ancora una volta Angelica, si certo il secondo movimento è andante è, è Luka… “corri Luka, scappa più forte, le tue scarpe così vecchie, non è giusto che dovessero sembrare così vecchie, più vecchie di te che neanche avevi 13 anni. Luka corri ti prego, vienimi incontro dimmi che non è vero… perdonami” Si Angelica continua, no non sto piangendo, ti seguo. Questa parte è difficile, questa è la parte che gli piaceva di più. Mi Guardava e diceva “wonderful” con gli occhi che ingoiavano il mondo, così mi facevo più in là e lui si aggiustava il maglioncino logoro fin sui gomiti, e provava, mi incasinava agitandosi, le dita qua e là e ridevamo, e lui rideva, solo in quei momenti rideva così forte.

 

Mi stritolo le palpebre illudendomi di cancellare ogni cosa, ogni ricordo, ogni momento lasciato a quel tempo. Londra 1999 Quando siamo arrivati io e Marco quello era il punto più chiaro di tutto il quartiere grigio. Un freddo che pure la neve non sembrava la stessa già vista, sembravano chicchetti che urtavano rimbalzando sulla testa. Era una zona periferica, un quartiere tranquillo, abbastanza ordinato, di case tutte in fila e giardinetto alle spalle. Un lungo viale alberato intorno e i negozietti a due passi. Ci avevamo pensato parecchio prima di tentare, io le mie lezioni di piano, che fortuna trovare un aggancio che andasse bene anche a me, Federica era lì da un paio d’anni, scovare un appartamento abbastanza decente non era stata un’impresa facile, e pure il piano ci aveva trovato. Cercavo di organizzare qualche lezione. Mentre Marco, grazie a qualche amico di vecchia data, continuava a fare traduzioni come faceva a casa e lavorava insieme ad un ex compagno dell’università in un piccolo pub, a giorni alterni. L’Italia dietro le spalle e una nuova vita e finché le vite non le vivi, quelle degli altri ti sembrano sempre meglio, meglio della tua.

 

L’edificio ordinato e ordinario, Joschua che cantava l’opera al quarto piano, tutto il giorno, tutti i giorni, col suo accento russo, Kate che provava i passi di danza da insegnare a qualche grassottella angolalo in quella Street tra luci di pub e due sole palestre sconquassate. Il vecchio professore al terzo piano barba e testa bianca pipa fissa che passava il tempo a scrivere scrivere e guardare fuori. La vecchietta con la badante indiana che cucina pasta e aglio e aglio e pasta e alterna l’aglio alla cipolla. E lui. Tutte facce che vedevo quando io e la mia amica Betsy scendevamo a fare la pipì, lei naturalmente non io. Betsy aveva affrontato il trasloco indomita, non ci si poteva credere che una barboncina della sua età potesse ancora sopportare tanto stress, da che mi ricordassi Betsy era a casa nostra praticamente da quando ero nata e forse già da anni addietro. La Betsy aveva resistito al freddo, alle giornate di nevischio finché non avevo scovato un angolino del giardinetto coperto, così invece di farla sul tappetino di casa o al gelo fuori, la faceva in uno spazietto del giardino, saltellava qua e là e io mi fermavo a guardare le finestre per capire la forma dei miei dirimpettai dato che non erano molto socievoli. E’ lì che avevo intravisto la testolina rossa tra le tende, apparire e scomparire. Lì un piano sopra il nostro, la sua famiglia avevo intercettato che fosse composta solo da loro tre, e la maggior parte del tempo solo da lui.

 

Madre e padre silenziosi, educati si limitavano ad un veloce “good morning” lavoravano in un ristorante del centro, li avevamo visti io e Marco una sera che ci eravamo spinti più in là del quartiere. Uscivano alle sei del pomeriggio “At six P.m.” avrebbe detto il traduttore bocca perenne a culo di gallina o impalata denti in mostra, per farmi capire la pronuncia di ogni vocabolo sfuggente. Tornavano a casa intorno alle tre, quattro del mattino, dormivano tutta la mattina e sembravano non esistere, fino ad un certo orario, dopo il quale succedeva di tutto, sembrava traslocassero anche loro e tutte le volte. Rumori indecifrabili, urla, mugolii che sembravano lamenti di qualche animale in gabbia. Anche di primo mattino che spesso io e il translator eravamo svegliati di colpo con le palpitazioni. Più di una volta avevo dovuto impedirgli di salire a dirgliene quattro. “Bene, welcome, è come stare a casa in uno dei quartieri nostri, he?” “Luka little bastard, You’re the usually, shit” il tema delle frasi che volavano non era mai candido e Luka doveva essere il nome di quell'esserino che ogni tanto sentivo scatenarsi con i Queen i pomeriggi in cui cercavo di provare le mie sonatine. Una volta c’eravamo quasi scontrati. Avevo sentito urla più forti del solito, tanto che il lampadario aveva avuto un sussulto e la Betsy continuava ad aggirarsi inquieta tra i piedi del tavolo. Un tonfo più enorme degli altri mi aveva spinto ad affacciarmi su per le scale e c’eravamo imbattuti uno nell'altra per la prima volta. Così magro che l’urto con la mia spalla credetti lo avesse ammazzato. Lungo come un ramo di bambù, dietro di me la Betsy lo guardava cercando di inquadrarlo tutto. “Sorry, sorry” continuava a scuotere la testolina rossa e cercai di fermarlo prima che si spezzasse in due.

 

Fu allora che vidi il primo dei tanti segnacci che ogni volta gli rigavano il viso, una guancia, un occhio. Avvicinai la mano al labbro sembrava sanguinasse. Cercai una frase da dire che fosse capibile e “What happened? Cosa è successo…” forse non era il massimo della pronuncia ma lui era scappato via di corsa. Sempre di corsa, le volte che io e la Betsy passavamo annoiate alla finestra tra le scale, da dove guardavo la nanerottola raccogliere fiera una mosca, una foglia, un tovagliolino, lo intravedevo agguantare le scale in salita e in discesa sempre trafelato, affannato, perennemente col fiatone. Certe volte di mattina presto l’avevo visto tornare indietro, pensando avesse dimenticato qualcosa. Poi avevo capito, portava su la colazione, un sacchetto con i panini caldi, ogni volta salutava sbatacchiando quella testolina che pareva gli si potesse staccare dal collo. E i pantaloni sembravano sempre così corti che si intravedevano le caviglie rosse di freddo. Cavolo più di una volta l’avevo scorto per strada a cercare di tirare su la zip di una giacca a vento incastrata, con intorno una specie di uragano che credevo potesse sollevare la Betsy dal marciapiede. Imbacuccata com'ero, quasi lo spaventai una delle volte mentre mi avvicinavo per aiutarlo, le sue mani rosse e screpolate, gelide come la cosa più gelida si potesse toccare. Tremavano. Perché non aveva guanti, un cappello? Per tutto l’inverno l’avevo intravisto con quella giacchetta leggera e quei pantaloni corti corti.

 

Eppure i suoi sembravano sempre vestiti in ordine. Lui, stessa altezza del figlio, capelli rasati rossicci, lei bionda appannata, col viso di chi doveva essere stata bella un tempo. Educati, testa bassa. “Si fanno i cazzi loro, tu fatti i cazzi tuoi” Marco aveva educatamente chiuso la faccenda in due parole che non avevano bisogno di traduzione ma la malinconia di Mozart mentre preparavo la sonata da spiegare alle gemelle Fletcher il giorno dopo, ruotava tutta intorno a quel viso gelato dal freddo, alle urla, all'idea che dietro l’uscio di una casa, potesse accadere qualunque cosa e al fatto di non poter farci niente. Pensai di parlare alla signora dalla faccia stanca, di fermarla per chiederle qualcosa. La seguii un pomeriggio che era uscita da sola. “Sorry” si voltò e i suoi occhi chiari mi trapassarono come non fossi mai esistita. Cercai con il mio inglese raggrinzito di parlarle di quei rumori, di quel ragazzino spesso solo, e “If ther’s any problem…” mi guardò fredda “no, no problem ok?” e in italiano semplicemente “si faccia affari suoi ok?” ok, chiarissimo non le fregava niente di me, di quello che volevo dire, proseguì con andatura zoppicante, sembrò più vecchia di quanto potesse essere realmente. Così un giorno in cui io e la Betsy avevamo deciso di perder tempo preparando una Apple pie, insomma una torta di mele decente, decisi che avrei bussato a quella porta, solo per lui. C’era la musica solita dei Queen e per tutto il tempo di preparazione della torta si erano sentiti passetti leggeri, sorridevo pensando che fossero di quel ragazzetto che festeggiava a suon di musica il fatto di essere solo in casa.

 

La sua testa appoggiata allo stipite e le nocche delle dita bianche e rosse appena un accenno, cercai di spiegare che io e la Betsy eravamo lì per fargli assaggiare un pezzetto di “Apple…” non mi aveva dato il tempo di finire, aveva richiuso l’uscio e io e il botolone di pelo eravamo rimaste un attimo interdette, poi all'improvviso si era aperta la porta e lui con una giacca al braccio e le chiavi, richiudeva tutto dietro le spalle, sorridendoci diceva “Ok go from you?”. Sullo sgabello alto della cucina il sole rimbalzava su quegli occhi trasparenti e la testolina rossa. La camicia a scacchi stinta come quelle secolari di Marco che piangevano dopo uno dei miei lavaggi. Ingoiava pezzi enormi mentre io e la Betsy lo guardavamo ammirate spalancare una bocca più grossa della sua faccia. Non ho più visto due occhi così grandi e vuoti di felicità, così enormemente disperati, bisognosi di un sorriso. “My name is Luka.” Sì, lo so, lo sento dalle urla che sconquassano tutto, lo sento dalla voce di tua madre e quella di tuo padre. Lo so. Da quel pomeriggio avere Luka a casa era diventata un’abitudine. Bussava timido ed entrava con lo scodinzolio di Betsy che gli faceva le feste, si sedeva composto e guardava ripetere per ore alle gemelle “Yes, so” oppure “no, bisogna rifarla” adorava il piano, lo guardava quasi senza il coraggio di toccarlo e di chiedere “Can I” …

 

Non avrei potuto dirgli no, la prima volta che lo avevo lasciato sedere e sfiorare i tasti il suo sorriso era sembrato più enorme di sempre. Così qualche volta gli facevo provare due notine. Qualche passo, adorava Mozart, la sonata in Do maggiore di Clementi, rapito dalla musica diceva “Was right?” ma no che non era right, le gemelle a turno erano mesi che provavano ma non c’erano passaggi che non avessero almeno un errore e Luka diceva che no, non ce n’erano, era tutto una meraviglia per lui. Ascoltava ogni passaggio di quella sonata che ormai sembrava avesse imparato, la eseguiva perfettamente sul tavolo della cucina con gli occhi chiusi e l’aria adorante, anche i passaggi lenti, snervanti di una nota alla volta, lui lento e paziente eseguiva ogni passo nell’aria con le dita sospese, due dita insieme, indice indice, medio anulare, pollice, pollice, medio anulare “right, right”. E rideva felice. Una meraviglia passare il tempo con lui. Com'era un dolore al cuore ogni volta vedergli un segno su un polso e sentire scuse che manco riuscivo a capire “sono caduto” “sì, lo skate” ma quale skate, non gliel’avevo mai visto prendere quello skate. Ogni tanto fingevo di avanzare la cena e così restava anche la sera e rimanevamo a tavola tutti e tre. Sembrava non volesse mai andare via. Lasciarlo andare mi faceva piombare in uno stato di tristezza inquieta.

 

O era solo o era con qualcuno che gli urlava contro. Qualcuno che correva forte come lo inseguisse, riconoscevo i suoi passi e quelli in tacchi di una femmina urlante. Che diavolo c’era da inseguire un ragazzino che non aveva mai neanche detto una parolaccia da quando lo avevo conosciuto. Suonavo e sentivo quei passi malefici e i tonfi e i botti e non potevo che ripetermi “corri dannazione Luka corri, non farti prendere…sono qui senti la musica, forza corri…” Suonavo più forte perché potesse sentirmi, sapere che ero lì in qualche modo, ero lì. Luka passava con me interi pomeriggi e ogni volta che gli chiedevo cosa fosse quel segno, cos'era quel chiasso del giorno prima, lui inventava “ho sbagliato un compito a scuola e allora…” come se fosse una colpa da pagare col sangue, coi lividi. Certe volte lo avevo medicato, diceva “sorry” perché non voleva che perdessi tempo a fasciare una mano più gonfia. “Ma ti picchiano Luka? Se succede qualcosa che non va, me lo dici vero?”. Gli passavo i maglioni troppo stretti del traduttore e lui incerto li prendeva quasi vergognandosi.

 

Quella bionda stinta me li riportò tutti uno null'altro una sera di freddo come tante, dicendo “non ne abbiamo bisogno e cosa vuole da noi? Luka non può prendere lezioni. We have no money ok?” ma io non volevo mica soldi, avrei voluto spiegarglielo a calci ma non avevo avuto il tempo. Luka da quella sera aveva diradato le visite da noi, lo intravedevamo così poco… Se suonavo alla porta, non apriva, scappava via quando ci vedeva all'angolo, ed era sempre più magro, pure i Queen non risuonavano più come prima. Mi decisi un pomeriggio aspettando che i suoi fossero scesi a lavorare. Bussai forte, più forte, pensando che non avrei schiodato finché non l’avessi visto. Quando mi aprì con una canottiera logora addosso, un paio di pantaloncini corti, aveva gli occhi pesti, un braccio fasciato e i piedi scalzi. Era freddo che non eravamo uscite fuori per tutta la settimana la Betsy ed io, spinsi la porta per infilarmici e la cucciola dietro me. Lui si spostò saltellando su un piede. Intorno era il caos, la muffa alle pareti, un letto all'ingresso, con lenzuola sporche, arrotolate, c’erano cartoni di pizza e qualche lattina buttata in giro come fosse un parco dopo un rave. “Che ci fai svestito con questo freddo. Sei gelato, e che diavolo è questo casino, Luka? Quando lo vedranno i tuoi sai che …” poi realizzai, non poteva certo averlo fatto lui in quattro e quattr’otto, forse vivevano così, forse lui viveva così. Io lo vidi arrancare all'indietro sfatto come se avesse avuto cento anni. “Cavolo Luka hai mangiato? Cosa c’è?” Io giuro mi sono dannata la vita mille volte per non aver capito e lui che si scioglieva in un abbraccio.

 

Sentivo la sua testa sotto il naso, le braccia stringersi forte, come ti stringe chi ha paura di cadere nel vuoto “can you help me?” “Ma certo che ti aiuto, certo che ti aiuto, Luka vieni da me ok? Andiamo a denunciarli alla polizia, ok, non ti lascio qui, ok? Luka non piangere. Cazzo non mi capisci, io “I can help you” ok, non cry non piangere. Gli asciugavo gli occhi e sentivo tutto il dolore di quel corpicino magro che non si era mai lamentato fino ad ora, che aveva un occhio così gonfio da sembrare esplodere. L’avrei voluto portare giù e pensai a come fare per liberarlo da lì, da loro, bisognava andare alla polizia, bisognava fare le cose per bene. “Aspettami qui ok, domani mattina io andrò a parlare con qualcuno io, ti aiuto ok?” Mi teneva stretta, non mi avrebbe voluta lasciare andare ed io non sapevo cosa fare. Ero spaventata ero così confusa, avevo bisogno di parlare con Marco forse con Federica, forse credevo di avere ancor un po’ di tempo.

 

Lasciai quello scricciolo di uomo lì e non avrei dovuto, i suoi singhiozzi me l’avrebbero dovuto impedire. Ma tutto il casino che c’era fuori era la metà di quello che avevo dentro. La faccia di sua madre, Marco che diceva fatti i cazzi tuoi… Tornai giù passai la serata aspettandolo per raccontare, per risolvere, pensai che avremmo dovuto chiamare la polizia, “domani mattina parlo con un amico e vediamo se…” Solo una notte e se li avessi sentiti li avrei ammazzati con le mie mani. Invece quella notte non si sentì un rumore, non uno. Era strano veramente strano che non volasse un suono. Aspettai la mattina per capire, per suonare alla porta avrei dovuto pazientare ancora un po’ o piombare sulla loro faccia… Ero appena uscita dalla doccia quando le urla fuori scossero i muri intorno. La musica dei Queen il suono di un piano, i passi veloci sulle scale, la torta di mele, il sorriso più dolce. Il vento… I segni sulla faccia, le caviglie rosse di freddo. “Is him, is Luka”.

 

E capii che era successo qualcosa, ma mi impedirono di vederlo, al giardino fuori c’era il vecchio professore, la vecchietta del terzo, due in ginocchio e le gambette con le scarpe sgangherate, il pantalone corto sulle caviglie e un rivolo si sangue che scivolava via. Non era colpa tua ok, non eri tu che facevi casino ok? Lo pensavo, lo avrei urlato e urlavo. Urlavo così forte che mi portarono via, via da lì… Luka tornava improvvisamente tra i tasti di un pianoforte…Angelica mi guardava immobile “andava bene?” La strinsi forte e lei incredula rimaneva immobile mentre piangevo. “Si certo va bene, va bene così. E’ perfetta. Wonderful” non c’è bisogno di riprovarla ancora non più, non più…








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