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07 Novembre 2015
Quel ritorno a casa...
di Stefania Castella



Quel ritorno a casa...
ricordo di casa

"Sonia" la voce dell’arpia risuonava sbattendo da parte a parte che quasi tremavano le vetrate intorno, avevo appena varcato la soglia e già mi si erano rizzati i capelli ben lisciati di primo mattino. Il tono era particolarmente rauco, un ululato e immaginai una trasformazione da direttore a lupa mannara, pensai che l’avrei trovata accucciata tra la scrivania e la poltrona girevole blu mentre si avviava alla mutazione. No, non era mutata, era sempre lei, il che forse era pure peggio.

"D o v e -c a z z o- e r i?" quando scandiva le parole lentamente voleva dire che era particolarmente incazzata, cercai di riportare alla mente tutti gli errori eventuali, le mancanze, le scadenze, gli appuntamenti, il suo sguardo si allungava e sentivo perforarmi il cuore, sarei morta dissanguata, lo sentivo. "Ero qui, stavo entrando giusto adesso per" … Non mi diede il tempo di finire la frase, non mi dava mai il tempo di finire una frase. "Sonia, cos'è questo?" e io la locuzione di rito dovevo recitarla a memoria all'unisono tutte le volte "Un giornale" ripetemmo come scolarette, "Non una scuola." Non è una scuola, lo so, me lo ripeteva ogni stramaledettissima volta. "Allora Sonia oggi che giorno è?" "Signora è mercoledì, signora" ecco cacchio eravamo passate dal "Lupo mannaro americano a Londra" al Sergente Pepper" la vedevo camminare con le infamissime Laboutin sulla mia schiena mentre sudavo una quarantina di flessioni. "Quando usciamo noi, Sonia?" "A questa sapevo rispondere velocemente "Il giovedì signora" "Bene allora dimmi cara, dove cazzo è, il pezzo che aspettavo?" Ah ecco svelato l’arcano, il pezzo che ieri sera doveva arrivare, e quella connessione di merda mi aveva impedito di fare in fretta così l’avevo dovuto stampare e "e siccome avevo problemi con l’Adsl ho stampato…" "Hai stampato…" quando ripeteva le mie frasi non prometteva niente di buono. Prese i fogli fumando le sue puzzolenti senza filtro che neanche mio nonno buon'anima, che pure fumava forte, avrebbe sopportato, lui che pure aveva osato, esalando l’ultimo respiro con, tra le dita, una lunghissima Multifilter facendosi beffe della nonna, del dottore e della vita. Masticava un muffin, sorseggiava il suo caffè lungo, anzi latte macchiato ma non troppo zuccherato, e solo con purissimo miele di acacia di chissà quale altura provenzale (puah!) tutto contemporaneamente, era la donna più multi-tutto che avessi mai visto, faceva più delle consuete tre cose contemporanee che di solito fanno tutte le normo donne e nel contempo riusciva persino a elargirmi cazziatoni lucidissimi che neanche mia madre con la luna dritta.

"Questo pezzo cara Sonia, questo pezzo, fa cagare. Di cosa ti occupi cara tu? di cu… cu…" Mi veniva da ridere mentre pensavo a tutt'altro "Cultura, della sezione cultura signora" di sti c… "E di libri e di scrittori giusto? Giusto. Si da il caso che lo strega sia terminato credo, e che il nome…" "E’ lì c’è tutta la parte della biografia. Paolo Barbato non concede interviste allora abbiamo dovuto cercare notizie che ho raccolto materiale sul libro "Il sole malato" sulla vittoria che…" "E mi fa cagare. Come ti avevo detto. Io voglio Barbato. Voglio un’intervista una citazione, una frase che esca dalla sua bocca, stampata sulla tua faccia, dritta sul mio Tablet per diciamo, lunedì. Ti do questo fine settimana. Scendi a Napoli, prendi tutto quello che ti darà Michela, notizie numeri etc. etc. E torni con il pezzo. In caso contrario non c’è bisogno che ti faccia il viaggia di ritorno." Certo certo, non c’è bisogno del viaggio di ritorno, a questo puntava l’arpia, a rispedirmi a casa a fare la figliuol prodiga a dire a mia madre "avevi ragione mamma, come psicologa e come madre" che era la frase che più la allietava, "avevi ragione, Milano non era per me. Sposo Christian, scodello un paio di pupi che ti renderanno nonna moderna come la rivista che ti piace tanto. E mi faccio crescere il pelo sulla gambetta come la trisavola".

Col ca’… avevo il morale sotto il camoscio dello stivale mentre raccoglievo lo sguardo di Michela assistente-gentile come quegli orsetti del cuore pronta a farti le coccole quando il mostro ti struggeva. Dovevo ritornare a casa, dopo sei anni e muovermi pure in fretta che non c’era nemmeno tanto tempo. Cosa peggiore dovevo spiegare a mia madre che non potevo fare il giro dei parenti vicini e lontani nei pochi giorni di sosta temporanea.


Lasciavo Milano in stato confusionale, come tutti quelli che ritornano e rivedono la vita, le scelte, il presente, il passato. Pensavo che in fondo non era stato male come avevo creduto. Non era come diceva Yole, l’amica di sempre che c’aveva le zie a Milano che diceva "mamma mia a Milano fa fridd’. Nun può capì. E poi se cadi non ti alza nessuno da terra". E questa cosa la dicevano tutti, ma io a Milano non ero mai caduta, tranne uno dei primi giorni che giravo per il centro cercando la posta con il fiato sul collo dell’arpia e non so come era arrivata quella scivolata infame. Non una caduta, tipo un tonfo, sbam e via, no io mi dovevo distinguere, e mi distinsi bene, scivolai come si scivola sullo slittino nevoso, aggrappandomi, per non cadere, alla metà della coppia davanti, la metà maschile, la metà di dietro, la tasca di dietro, che fece leggermente strapp e mentre cercavo di reggermi, l’altra metà lesta cominciò a colpirmi ripetutamente con la borsetta e mentre colpiva intrepida ripeteva ad alta voce "E dovevamo veni a Milan’ per essere scippat tiè" e non ebbi il coraggio di dire che "dovevo venì a Milano per trovare una napoletana incazzosa e spararmi una figura di merda colossale" ."Ua era meglio si trovav na’ milanes’ almeno mi lasciav a terra" solo questo mi uscì e ridemmo insieme. Da allora non sono più caduta a Milano. E non solo, davanti al palazzo dove avevo trovato l’appartamento insieme ad una coinquilina pugliese, c’era un grosso murales proprio come casa, e tante volte restavo incantata da certe terrazze piene di fiori, bagnate di sole, e avevo smesso di pensare la fatidica frase "anche a Milano c’è il sole". Avevo pure smesso di camminare per viali alberati aspettando di veder spuntare il mare come a Santa Lucia.

 

Adesso invece pensavo a mio padre… Mio padre era stato una firma importante di uno dei maggiori quotidiani del sud, fino all'ultimo giorno. Io non l’avevo mai visto davvero tranne che in qualche foto. Era bello, riconoscevo il suo sguardo in me, e quando qualcuno mi vedeva se lo aveva conosciuto non poteva fare a meno di dire "Sei così uguale a tuo padre…" non capivo dalla faccia di mia madre quanto questo le piacesse…per me era un eroe per lei forse solo un marito. Mamma diceva che il mio voler essere giornalista era un modo per ripristinare quel legame con la figura e bla bla bla… un certo riscatto… io coglievo solo il finale del riscatto che già ero in un’altra stanza. Mi piaceva scrivere tutto qui. Mentre il terno andava, passavo i ricordi in rassegna e la quarta di copertina de "Il sole malato" la bella opera premiata meritatamente dell’autore latitante. Mi chiedevo perché non si fosse mai voluto mostrare, perché tutto questo mistero. Uno che scriveva della sua città in modo così coinvolgente, della bellezza celata in ogni anfratto, di come accoglie aprendo il cuore, mostrandosi per quello che è, straziata, piena di lividi ma così sorprendentemente unica… e mi chiedevo perché quell'autore non piacesse tanto a mia madre, tanto da dire "Vieni per intervistare quel Barbato? E che vien a fa’?" "Affettuosa" avevo pensato.

 

Ero arrivata a casa che quasi tramontava, il cielo era un misto di arancio e blu indescrivibile. C’era tutto il colore del mondo in uno spazio ristretto di palazzi. Pure il grigio non era un grigio consueto, sapeva luccicare, sapeva richiamare. E mi sentii a casa come non fossi mai andata via. "Ue guarda comm’ è tost a stranier’" l’accoglienza di due ragazzini mi distolse dai pensieri e non potetti evitare la risposta "Guagliò io? Song e napul’" lasciai i due a guardarsi stupiti di quanto una biondina smilza con gli occhi azzurri azzurri potesse essere "chiù napulitan e lor’". Prima di casa, avevo bisogno della discesa che avrebbe portato lì. Quella che mi era mancata, quella che dai vicoli si apriva al mare ed eccola, la montagna di fronte, distesa, come una femmina fiera in posa per lasciarsi scivolare addosso gli sguardi ammirati della gente. Casa, luogo di mille dolori, di mille contraddizioni. Pensai di provare uno dei numeri dello scrittore. C’era un nome di donna, doveva essere una segretaria, composi il numero pensando di fare un tentativo a vuoto, la donna rispose subito.

 

Spiazzata azzardai "Salve, sono Sonia Boschi per "Il resto del giorno" la chiamo per sapere se fosse possibile avere un colloquio con il dottor Barbato…" "Il dottor Barbato non rilascia interviste mi spiace" La voce era stata chiara, decisa, non ammetteva repliche, per cui insistetti "Guardi arrivo proprio adesso da Milano, apposta. Se lei fosse così gentile da …" "Come le ho detto, non sarà la prima e non sarà l’ultima a giungere da Milano. Il dottore non rilascia interviste" chiuse la telefonata mentre pensavo solo "sta’ stronza". Incontrare mia madre fu l’incombenza più tosta da affrontare, dribblai ogni discorso che pareva voler parare al futuro, al ritorno, fino all'intervista. "Che ci provi a fare, lo sai che quello non si fa vedere da nessuno" Inutile replicare. Non c’era tempo dovevo essere convincente e basta. La spuntavo da trent'anni con mia madre, l’avrei spuntata pure con questi tipi. Pensai di inviare una mail, qualcosa di sincero, di accorato, del tipo: "Ho bisogno di questa intervista se voglio conservare il posto al giornale… etc. etc. … firmato Sonia Boschi.

 

La scrissi prima su un foglio e poi la riportai al pc. Interrotta da un "Pizza?" ma si pizza. Uscimmo in una serata calda di fine ottobre che sembrava ancora estate, le luci giallognole lasciavano lunghe ombre sull'asfalto. Le barche al molo ondeggiavano ipnotiche e il castello dormiva beato tra facce di milioni di colori e voci e rumori ovattati. Troppo perfetto, tutto così perfetto, che capii che la mia città mi ingannava ancora, come fa una madre, mi chiedeva un abbraccio dal quale sarebbe stato difficile dissolversi. Feci decine di foto che spedivo a Michela, all'amica pugliese no, che sennò le veniva la voglia di mare e il pianto perpetuo. Michela invece ad ogni scorcio di onda, di barca, alla foto della pizza e delle "paste crisciute" lasciava solo entusiastici "Meraviglia!" di commenti. Mamma era rilassata tanto che non ricordavo fosse così bella quando sorrideva. "Se ti vedesse tuo padre…" "Perché non resti qui? Puoi fare tante cose, potresti dare una mano a me con lo studio invece che incaponirti con questa storia del giornalismo.

 

E poi questa cosa dell’intervista, ma lascia perdere". "Eh sì che se lascio perdere, mi ci lasciano per davvero qui. Mi ci mollano a calci in culo. Mamma ho preso un impegno…" Tornammo tardi e il leggero trillo di un messaggio in arrivo mi colpì in pieno. La casella della posta urlava Paolobarbato@... Il cuore ebbe un sussulto. Diceva "Ci vediamo alle 12.00 allo chalet di fianco all’albergo Vesuvio". Cacchio ce l’avevo fatta? Non dormii al pensiero. Quella mattina sembrò una specie di sogno ininterrotto. A parte la visione dello strappo di luce tra le tende, il calore che arrivava al letto e uno scorcio di mare che il caffè si perdeva nell'odore di una bellezza che non lasciava respiro. Avevo la testa impegnata a scervellarsi sul messaggio e sarei rimasta a guardare fuori tutta la vita comunque…

 

Scivolai in fretta per raggiungere a piedi l’angolo dell’appuntamento. Intorno spose chiassose rincorse dai fotografi, attorniate da parenti e damigelle, bimbi vestiti da Prime Comunioni, pomposi, immacolati, felici. Nella folla che andava in ogni direzione scorsi una figura appoggiata al muretto davanti al mare. Guardava le onde coi capelli leggeri mossi dal vento. Un profilo perfettissimo una linea sottile, elegante vestita di bianco. Si voltò sorridendomi disse "Sonia, come somigli a papà" quel papà così confidenziale mi suonò strano, non sentivo "papà" così spesso. "Scusi?" non sapevo che dire, forse era un’amica di famiglia che mi riconosceva. "Sono io". "Io chi? Mi scusi…" "Sono io, sono Paolo Barbato" Ok, ora penserete che davo i numeri per il caldo e tutto il resto, ma aveva detto proprio così. "Forse è meglio se ci sediamo" la seguii verso uno chalet. La guardai seduta di fronte, bella, una bella donna di mezza età, occhi chiari, viso regolare, un sorriso aperto, dolce, morbido, gioviale. "Credo di doverti delle spiegazioni. Ecco io, sono quello che cercavi. E ora immaginerai perché non mi faccio vedere in giro. Non sono lo scrittore che tutti credono. Vedi, io volevo solo scrivere, non ho mai cercato o avuto bisogno della notorietà che…" "Si ma perché allora ha accettato di vedermi?" "Perché ho riconosciuto il tuo viso. E il tuo nome. Conoscevo tuo padre. I suoi occhi" allungò una mano verso il mio viso. "Hai letto il libro? Vedi la parte finale, quella parte dove ci sono dei versi. Erano in parte suoi, delle lettere che mi scriveva, delle cose che scrivevo a lui. Ci siamo incontrati che avevamo vent'anni. Quando ha conosciuto tua madre ci siamo persi di vista e poi ritrovati. Ma mai, non pensare che fosse una storia di sesso o di corna o di tradimenti. Io e tuo padre ci scrivevamo lunghissime lettere, stavamo per ore seduti a guadare il mare.

 

Vedi quella parte dove è scritto "vengo da te in un giorno di pioggia" … ecco quella era la poesia dell’ultima sera che ci vedevamo. Lui mi aveva raggiunta per dire basta, che non poteva dedicarmi tempo che c’era una bimba che sarebbe nata. Che aveva capito che il mio sentimento "travalicava" aveva detto così, travalicava. Io furiosa avevo strappato i fogli e tutto quello che avevo conservato, una sfuriata incredibile. Dicevo "Ti amo" come una cretina non so come…è scappato via e non l’ho più visto. Mi sono sentita in colpa per tanto tempo e non ho voluto vigliaccamente nemmeno ascoltare chi diceva che forse l’incidente era stato provocato da qualcuno a cui lui aveva dato fastidio. Vigliaccamente, si. Ero arrabbiata. Quando ho iniziato a scrivere, c’era lui in ogni scorcio di questa città, in ogni ricordo in ogni verso..."

 

Mio padre non era un eroe come avevo immaginato io. Mia madre si sentiva tradita. Lo scrittore non esisteva. Mi sentivo inebetita. "Qui ho scritto delle cose che puoi usare per la tua intervista. Sono parole mie, sono una sorta di confessione. Ho una grave forma di cancro, non ho tempo per recriminare. tempo da perdere, tempo. Prendi e porta tutto al tuo giornale. Se proprio ci tieni a restare lì". Non sapevo se crederci, presi con furia quei fogli, li infilai in tasca, arrabbiata. "Lei mi vuol far credere che ha passeggiato mano nella mano con mio padre, scrivendo virgolette romantiche per anni… lei è una pantomima, come tutti, compresi mio padre e mia madre". Mi guardò fredda "sei solo una ragazzina. Non puoi capire. Sei andata via, non sai nulla di noi, neanche di quanto veramente contasse il lavoro di tuo padre. Lui aveva dato la vita per tutto quello in cui credeva, l’avrebbe data per te e per tua madre se ne avesse avuto il tempo. Non credere che gli eroi esistano solo quando muoiono sotto i colpi dei fucili. Tuo padre andava via da casa mia, è vero, ma qualcuno lo stava aspettando. Qualcuno che aveva a che fare con le sue ricerche con le sue inchieste, dalle quali lui avrebbe voluto difendere ognuna di noi, compresa te che ancora non eri nata."

 

Tutto tornava pure le parole di mia madre, le sue angosce. Presi i fogli dalla tasca li strappai lasciandoli andare nel vento. "Non mi servono le sue confessioni. Francamente non me ne faccio proprio niente". Mi alzai di scatto dandole le spalle, avanzando sentivo solo le gambe andare, il vento e il sole sulla faccia. Dovevo pensare, a mio padre a mia madre alla direttrice, al mio lavoro. Il mare si muoveva intorno a me, infilai le mani in tasca per tirare fuori dei fogli "Mi chiamo Eliana sono io, sono lo scrittore più ricercato al…" era la lettera della bella signora rimasta in tasca mentre nell’aria c’erano ancora i pezzetti della brutta copia della mia mail. Mi venne da ridere pensando agli inganni, alle bugie al mestiere che avrei voluto fare veramente. "Te l’ho fatta" pensai e mi sentii un cronista d’assalto. Rividi lo sguardo di mio padre, quello di mia madre, mentre dietro di me la folla di persone si muoveva per fatti suoi, io andavo, ancora non sapevo bene dove, in fondo avrei avuto ancora un giorno e una notte per decidere nonostante tutto… ora ero a casa, domani forse…








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