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22 Gennaio 2016
Cara, mammina cara...
di Stefania Castella



Cara, mammina cara...
madri violente

L’auto scura si ferma davanti al cancello, un cancello enorme, elegante. Il lunghissimo viale alberato si apre su uno spazio ordinato, fiori delicati in sfumature leggere. Odore di pulito, unico indizio che fa dello splendore intorno, ospedale. Angoli di delicate macchie di bianco di tavoli e sedie e poltroncine dall’aria comodissima, scuro verde di chiome piegate di alberi secolari. Pulizia, ordine, silenzio. Fruscio di foglie leggero. 

 

La giovane donna scivola lenta lungo il viale fino al patio, il cappotto lussuoso sfiora i ciottoli chiari. “Signorina, è qui”. Una donna in camice bianco le sfiora una spalla le indica un punto tra le file di alberi. La giovane donna sorride educata. “Se vuole può raggiungerla, e magari dopo aiutarla con il pranzo…” “Credo che starò qui ancora un po’”. -Mamma-  Eccoti, ti guardo, non mi vedi, e forse pur vedendomi non mi riconosceresti. Non più. Sono cambiata, sono diversa, sono cresciuta, sono una donna. Nonostante tutto. Nonostante te.

 

Due passi indietro, si può anche fumare da qui. Si può anche fermarsi a pensare, guardando la bellezza di fiori, corolle bellissime. Rose sfumate, e fiamme di rosso. Rosso. Le vedo, vedo le tue labbra di fuoco muoversi ipnotizzanti allo specchio, stendi attentissima il colore, la tua bocca perfetta, apri, chiudi schiocchi. Ti guardo, il riflesso di uno specchio non saprebbe rimandare indietro tutta la bellezza che ti avvolge. Nessuno può vederti come me, nessuna ti conosce come me. Mamma.

 

Mi piace dondolare pigra, osservare lentamente che diventi una diva, liberi i capelli che si muovono leggeri sulle spalle, osservo ogni gesto, ogni tuo movimento con devozione, intorno a te l’ordine caotico che conosci a memoria, nulla di quel caos è a caso, sai perfettamente dove sono tutte le tue cose. Lo so anch'io, come so che non posso toccare, solo ammirare da lontano, ti accorgeresti di ogni piccolo lieve spostamento, e allora sì sarebbe il caos.

Che bella che sei. Ti vedo passare leggera vestita di profumo buonissimo è una sera di quelle tranquille, di bicchieri tintinnanti, di tavole imbandite che tocca guardare da lontano. “È una serata per i grandi. Cenerai in camera tua.” Ordine, è un ordine, come in ordine deve essere tutto dopo, non una briciola non un alone, altrimenti è l’inferno. Mamma. Ma stasera è così, c’è un’aria di festa, c’è la gioia l’ammirazione negli occhi intorno a te. Quello che desideri, che ti rende felice. Non è sempre così. Succede che sento rumori alla tele, intravedo la folla, gli applausi, c’è un uomo vestito elegante tra le mani qualcosa che luccica, c’è una donna, sorride, raccoglie, si sposta i capelli. “Ci regali due parole, la prego…”

 

La tv si spegne improvvisa. La rabbia altrettanto improvvisa. Lo so, sento l’aria cambiare. Il tuo sguardo si volta, i capelli si attaccano alla maschera verde che tieni sul viso, mi sembri un’aliena mi scappa da ridere. Violento uno schiaffo mi scheggerà un dente. Non dovevo ridere. Sangue che gocciola, ira che invade la stanza. Urla, schiaffi. Nessun fazzoletto, nessuna occhiata di pietà. Ho imparato ad aspettare, aspettare che passi la rabbia, a scappare via come un cucciolo a cui calpesti la coda. Scappo, mi nascondo, mi lecco le ferite, cerco di non lamentarmi troppo. Verrai dopo, verrai ad abbracciarmi a piangere lacrime di colpa, di collera, parole di pena. No, non piangere mamma, ho sbagliato, non dovevo, sono io a chiedere scusa. A perdonare ancora.

 

Nessuno può ridere, se non sei tu a decidere. Dovevo capire, quel premio era tuo, e il mondo non capiva, la tua grandezza, la tua potenza, ed io non capivo, la tua tristezza. Nessuno ti capisce mamma. Nessuno ti conosce veramente, mamma. Di te vedono l’involucro bellissimo della perfezione da dea, la linea precisa delle sopracciglia sul tuo sguardo affilato. Gli uomini ti desiderano, le donne ti amano, ammirano la forza, il coraggio, la tua aria indipendente. Ti ammirano come me, anch'io ti adoro mamma se ti lasciassi amare, ti dimostrerei quanto affetto ci lega. Il tuo sguardo fierissimo, il tuo viso perfetto, non c ’è un segno che mostri la tua faccia reale, non c’è un segno che racconti il dolore che porti, quello lo porto come lividi, io, sulle braccia, sono tracce indelebili di ogni volta sbagliata, di ogni tuo fallimento.

 

Le tue dita affilate mi cercano, stringono, strattonano, unghie bellissime incidono la carne, non ti accorgi di tutto il dolore, dei segni che lasci. “Mamma, mi fai male…” Ma tu non mi senti, non ascolti che il pulsare rabbioso tra le tempie rossastre “Brutta, sporca, maledetta. Con tutto quello che faccio per te, mi ripaghi Così?” Così, è un ginocchio sbucciato mentre fingo di essere una bimba come altre e corro in giardino, e oso cadere e macchiarmi la gonna o graffiarmi le mani. Pulsano i lividi e di più le parole.

 

È così da sempre, mi hai raccolta come un micio sperduto in orfanotrofio, portata a casa come un trofeo da lucidare, lisciare mostrare orgogliosa. “Piccola sgualdrinella, avrei dovuto lasciarti dov'eri”. Ho creduto che avessi ragione, meglio se mi avessi lasciata dov'ero non ti avrei rovinato le giornate indolenti davanti allo specchio. Così imparavo a non fare rumore a non scatenare la rabbia, a muovermi piano, nemmeno bastava. Nel bagno, il tuo tempio, una volta, una volta soltanto, ho osato toccare quella bellissima boccetta di profumo, sapeva di te, sapeva di buono.

 

La furia dei tuoi artigli si abbatteva su di me, lasciando segni sul marmo bellissimo. Bisognava pulire, la tua grande ossessione, le mie macchioline di sangue potevano rovinare il colore dorato dei bordi lussuosi. Spogliata, mi hai spogliata tirando i vestiti strappando a brandelli la camicia bianca, piangevi lavando la mia faccia, le braccia, il riflesso di te e di me disperata allo specchio, lo specchio della mia vita con te. Sono fuggita a letto bagnata, impaurita, dispersa. Il tuo pianto sfiancante, a terra disfatta a smacchiare ossessiva. Un abbraccio nel buio ancora una volta

 

E ancora una volta la calma apparente di un mattino di sole, l’aria immobile serena a scartare le lettere ammirate di una folla di gente ad idolatrare. Mi muovo un po’ goffa, appena sveglia, distratta lascio cadere il tuo bicchiere di bollicine auree. So già che dovrò pagare per questo. Una valanga si è alzata su me, sembravi più grande, sembravi infinita, il viso la solita maschera di rabbia infuocata, hai afferrato una forbice ho creduto volessi piantarmela in petto. No, era peggio, mi hai afferrata i capelli tagliando, strappando le ciocche una ad una, bellissimi boccoli cadevano tra le lacrime che non potevo frenare. I miei bellissimi capelli, colore del grano, mi piaceva legarli intrecciarli, passarci le dita, rannicchiarmici dentro tra il cuscino e il lenzuolo.

 

Via, strappati via, per dispetto, per infame cattiveria. “Così impari a muoverti come una demente”. Una bestia che ingoia la tua anima da chissà quale anfratto, lo so questo era. Dovevo cercare di non farla uscire da lì, da dentro il tuo bellissimo corpo. Muovendomi piano, esistendo piano, vivendo piano. E piano mi avvicino, come ancora faccio, come ho imparato per difendermi. Non mi sentono entrare talvolta. Cammino come un’ombra, mammina cara. Ti sono vicina, ti sfioro la testa imbiancata, ti bacio leggera la fronte. Mi guardi oltrepassandomi. I tuoi occhi risplendono ancora di guizzi di bronzo dorato, i capelli sottili accarezzano il viso più scarno, le labbra rosse come un tempo. Chissà cosa pensi, se mi riconosci. Ora non ho più paura, mi accuccio ai tuoi piedi di madre come un cane fedele.

 

Adesso sei innocua, la bestia ora tace, ha smesso da tempo di urlare. Non parli, mi sfiori le mani “Amore…” mi dici, mi sciolgo in un pianto senza rumore ma un pianto diverso. Sì, ti voglio bene mamma, nonostante tutto ti voglio bene, cara, mammina cara…








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