 | | alcolismo e adolescenti |
“Lascialo andare o lo perderai, lo sai”. Lo so, certo, dovrei saperlo come credi di saperlo tu. Tutti crediamo di sapere in realtà lo crediamo, lasciarlo andare, come hai fatto tu? No non credo che lo farò, credo che lo accompagnerei ovunque, anche all'inferno. Mio figlio io lo accompagnerei ovunque. Io. C’erano tre bicchieri in tavola uno per ognuno di noi, le chiacchiere di sempre scivolate sulla partita avanti alla quale avevo trovato la sedia libera e dovevo spostare la testa a destra e sinistra per lasciarli guardare. Era divertente, quando eravamo una famiglia ancora.
Filippo ha 17 anni e la faccia da bambino, i capelli arruffati e il sorriso improvviso. Il sorriso di Marco suo padre, le sopracciglia arcuate che gli danno un’aria severa quando vuole, quelle le ha prese da me, meno la voglia di severità. Alzava lo sguardo dal piatto per commentare un passaggio, un fallo, distratto prendeva la bottiglia di vino lo vedevo allungarsi verso un bicchiere con la coda dell’occhio, faceva per avvicinarla al suo, poi guardandomi istantaneo la avvicinò alla mia mano che si allungava sull'orlo del mio. Di colpo i nostri sguardi si somigliarono. “Non bevo, lo sai” lo dissi con una voce ferma che non aveva troppo senso, stupiva anche me, sentii che avevo irrigidito lo sguardo, lo sentii dal suo sguardo che si corrucciò. “Che cavolo tutti bevono un sorso di rosso a tavola, fa bene, solo tu devi essere sempre così drastica? Ti toglierebbe quella faccia pallida, vero pà?”. Pà, come sempre si limitava ad alzare un angolo di labbro senza parlare. Quando eravamo ancora una famiglia.
Erano passati mesi da quella sera Marco poche sere dopo varcava la soglia con la valigia a fianco, usciva dalla mia vita per sempre dopo anni di infelicità coniugale. Mi sentivo in colpa per Filippo così legato a suo padre tanto da non avere ancora il coraggio di affrontare il discorso, sempre più silenzioso, sempre più isolato. Probabilmente ce l’aveva con me. Erano giorni confusi di vita da riadattare, il lavoro da riprendere per far quadrare i conti, la solitudine nuova, non che prima fosse tanto diverso ma sapere che oltre noi due nessuno avrebbe lasciato scorrere l’acqua in bagno, acceso la tv, imprecato per la mancanza di film interessanti, o interessanti schifezze da organizzare per la sera, era molto più deprimente. Dormivo male, riprendere i turni di notte in ospedale non era stato facile. Casa sembrò diventare una trappola alla quale ritornare, buio e solo la lucina del cellulare di Filippo dietro la porta della sua camera.
Sembrò una boccata d’ossigeno vedere che piano, ritornava a riprendere contatto con gli amici, ricominciava ad uscire. Ma senza misura si passò in breve da un eccesso all'altro. L’orario che cominciava ad allungarsi e spesso dopo mezzanotte ancora dovevo girare per casa in attesa dei suoi ritorni. Quando di notte non ero al lavoro sveglia, ero comunque sveglia a vagare per casa guardando le lancette. A lui trovarmi sveglia non faceva né caldo né freddo anzi nervoso schizzava via senza neanche alzare la testa. Fingevo di essermi alzata per caso e le prime volte quei ritardi non li feci pesare. Poi le cose cambiarono. Alzarmi di notte, al buio, toccare il suo letto intatto, telefonare senza sentire risposta, mi stava sfuggendo e non sapevo come dargli un limite. Provare a parlarne equivaleva ad un “Ti lamenti sempre? Dicevi non esci mai, ora dici che esco troppo, metti in ordine il cervello, mamma”. Come dargli torto, in ordine il cervello, fosse stato facile…
Raccattavo le sue cose in camera come sempre, quando una mattina sotto una pila di maglioni vidi una bottiglia di liquore a metà. La prima volta che intercettavo il primo dei segnali che fino a quel momento non avevo intuito. Non avevo fatto caso allo sguardo stanco, al pranzo o alla cena a cui sfuggiva, ai discorsi che non avevamo tempo di fare. All'odore che si portava addosso che non potevo non aver capito. Sentii un attimo di sbandamento come se l’onda di un ricordo mi avesse schiaffeggiata per riportarmi a terra, ad una realtà che non avrei voluto vedere. C’ero io, c’era lo sguardo di mia madre che non capiva, che non sapeva. C’era una strada che stava per ingoiarmi. C’era una porta chiusa in faccia e seduta per terra sulle scale, aspettare che si aprisse e vagare per strada di notte prima che mi raccattasse mio fratello per poi litigare con lei, per farle capire che certe pieghe, certe piaghe, non le curi chiudendo una porta in faccia alla realtà. Avevo commesso l’errore di aver perso la testa per una mente sballata che passava la vita senza mai un attimo di lucidità. Bevevamo forte, non so dove prendesse i soldi per le bottiglie, per il fumo, per tutto quello che usava costantemente, quando lo intuii e vivevo praticamente in casa sua da quando lei mi aveva definitivamente buttata via di casa, anche la sua porta era rimasta chiusa.
Avevo appena diciott'anni aspettavo un bambino, forse per questo mi riprese con lei. Forse solo per questo, quel capitolo buio era stato cancellato. Cancellato, archiviato nel dolore, nella dimenticanza. Forse per questo non volevo riconoscere nel viso disfatto, nel puzzo acido che sentivo su quelle magliette, quel passato che ritornava. Non era un dispetto del destino, era capitato e basta. Poi tutti bevono, poi… Uscivo di casa senza guardare l’ora, Filippo ormai maggiorenne non chiedeva, non parlava, usciva e basta. Chiuso con la scuola, chiuso con me, viveva per la sua chitarra sulla quale più di una volta l’avevo visto accasciarsi. Uscivo di notte a caccia come un animale in cerca di una preda, io cercavo mio figlio col terrore di vederlo, di saperlo in un angolo di una panchina con le facce perse di amici sfatti o strafatti come lui. Un anno solo e una discesa così veloce da non poterci credere.
Bere non è assumere un acido, non è il buco, non è la coca, bere non rassomiglia alla droga che sai ti sballerà fino ad ucciderti è l’illusione di un piccolo diversivo, di un passaggio che ti fa solo divertire un po’, fino a che non puoi più smettere e non è più divertente. Riportarlo a casa significava combattere ogni volta contro la sua faccia da demone, avere paura di tuo figlio è così innaturale, da sentire che ti si strapperà il cuore che vorresti strappare a lui per la rabbia che ti sale, che ti rende impotente. Se dicevo “Sei ubriaco, da fare schifo” diceva “Sei fuori, sono più lucido di te” e non c’era verso di fargli capire che bere tanto da dimenticare di tornare a casa non era più tollerabile. Controllavo le bottiglie al ritorno dal lavoro, avevo preso l’abitudine di segnare con un pennarello l’altezza del liquido per sapere se e quanto ne avesse bevuto, usciva quando rientravo, ritornava solo quando sapeva che sarei uscita. E dimagriva a vista d’occhio, gli occhi affossati i segni sulla pelle, guardavo la sua discesa, le sue trasformazioni inebetita, come un automa che non sa prendere l’iniziativa.
Cosa diavolo stava succedendo. Era l’alcool che devastava il suo corpo, una quantità troppo alta per essere lo sballo di un momento di divertimento. Nella testa rimbombava la frase di madre già sentita mille volte “Lascialo andare lo perderai” Cercavo un significato, un senso. Mentre mi rintronava dovevo essermi addormentata, sognavo una casa, una tavola, una famiglia, una finestra Filippo che mi guarda mi sorride, si volta guarda altrove apre la finestra e si arrampica per saltare e ritorna una voce che dice “Lascialo andare, lo perderai” lui mi guarda mentre barcolla, in bilico, cerco di avvicinarmi e le gambe pesano sembra di essere immersi sott'acqua impossibile muoversi, mi allungo lo afferro lo tengo forte. Mi sveglio col batticuore sommersa di sudore e terrore mi alzo in trance, la sua stanza è vuota, fredda la finestra aperta, mi coglie un brivido, arrivo al bordo affacciandomi disperata, poi il pensiero lucido ritorna, non è rientrato.
Mi vesto a caso, in fretta il jeans sui pantaloni del pigiama, la faccia bollente del sonno, del piumone del calore della notte si raggela fuori dal portone, vago come in una strada da allucinazione in un tempo sonnolento, sospeso, vado verso la metro, la stazione dove si ritrovano i ragazzi di solito, guardo le mie scarpe un passo dopo l’altro e sento la stanchezza arrivare agli occhi, mi fermo piango, non vedo la strada, inciampo. Filippo è fermo su una panchina intorno bottiglie, due forme disperse di amici come lui, a terra una siringa, tremo lo raggiungo scuotendolo, tirandolo di peso, lo avrei ammazzato. Si tira su come se provenisse da un lunghissimo viaggio, sorride con la faccia disperata, gli mollo uno schiaffo e i suoi amici mi guardano inermi. “È tua? dimmi, quello schifo lì, è tua?” Urlo, urlo senza freni, senza pensare, piangendo senza controllo. Mi grida “No non è mia, non è mia” ma non lo sento più, non sento niente, sono stanca, sono solo una madre stanca, una donna stanca, giro le spalle, cammino sento la sua voce dietro di me, la lascio sbattere sui lampioni, sui vetri non mi ferma, non posso farcela, lo sento urlare ma sono lontana sono mia madre, non sono più io, sono la figlia che voleva essere aiutata, il figlio che cercava la mano per non cadere di sotto, ingoiata in un imbuto che ha messo in moto le gambe per portami via da lì, da quella notte, da quelle verità che non vuoi vedere. Mi raggiunge alle spalle “Non è mia te lo giuro, ho bevuto sì, ho bevuto, ma ti giuro non mi faccio, mamma ti giuro non l’ho mai fatto. Ti giuro smetto, te lo giuro”
Resto di spalle un attimo infinito, lo abbraccio di fiducia, di amore, restiamo abbracciati un momento interminabile di giorni e notti di sudore e febbre e vomito e promesse. “Come hai fatto a capire… Cioè, che forse… Che non era… Che stavo esagerando?” “Non lo so Filippo, non lo so o forse sì, solo perché io, ero come te. Ma questa è un’altra storia…” Mi chiamo Giulia sono qui con mio figlio, sono, sono stata alcolista, oggi sono qui con mio figlio, voglio aiutarlo. So che mi aiuteranno. Sono qui, sono una madre che vuole aiutare suo figlio. Gli tengo la mano arrivo all'inferno lo tiro fuori, risalgo con lui non lo lascio dietro, non lo lascio da solo. Io.
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