 | | mai più lacrime per amore |
“Li senti i grilli, Caterì?"
Alessandro disteso accanto a me guardava il cielo azzurro chiaro, quasi bianco. Intorno ci accarezzava una tavolozza di colori e l’ombra degli alberi.
“Si che li sento Alessa’ ma adesso è tardi meglio che rientriamo. Che domani c’ho da partire presto”.
“Allora hai deciso che parti”.
“Si, ho deciso che parto”. Non voglio mica invecchiare qua in mezzo al niente, con te, lo pensai ma non lo dissi, non volevo ferirlo di più. Io e Alessandro eravamo cresciuti insieme anzi di più, eravamo proprio nati insieme, le nostre famiglie vivevano una difronte all'altra, in quelle case basse dove vivere con le porte aperte era la normalità. Lì al paese si conoscevano tutti, uno di quei posti di mare con i padri di facce consumate dal sale, e madri che tirano avanti la baracca ad aspettarne i ritorni dalla pesca. Io no, io volevo di più. Sapevo che ormai tutti davano per scontato che ci saremmo sposati, lo pensavano i genitori, lo pensavano gli amici, i parenti, lo pensava Alessandro, tutti erano d’accordo, tutti tranne me, io progettavo di iscrivermi all'Università, e volevo partire, allargare il mio orizzonte, oltre quello bellissimo del cielo e del mare che sì, era l’incanto, ma per me, una camicia di forza che limitava la mia voglia di andare. Io non volevo diventare grande pensando alle cose che avevo lasciato andare senza lottare. Non volevo lo stesso sguardo disfatto di mia madre, di mia sorella grande, che passava la giornata e la vita a cambiare pannolini, sembrava così vecchia e aveva appena trent'anni.
Naturalmente era stata dura convincere i miei che a diciannove anni una ragazza poteva persino viaggiare da sola. Dopo una riunione familiare durata a dire il vero più di una cena consumata nella polemica, si decise che si poteva fare. A queste discussioni aveva partecipato anche Alessandro stranamente in silenzio, e con una conclusione che spiazzava tutti. “Vuol dire che vengo con te”. Lo guardammo tutti con la stessa curiosa espressione. Alessandro era sempre stato geloso, possessivo. Finché eravamo stati bambini, era passato inosservato, ma man mano le sue ossessioni avevano cominciato ad infastidirmi. Se uscivamo e intercettava uno sguardo che non lo convinceva si rabbuiava per tutta la sera, inutile dirgli che non era come pensava lui. Se ricevevo una telefonata improvvisa, partiva il terzo grado e naturalmente era lui a decidere se, come e chi potevo frequentare. Isabella la mia migliore amica lo sopportava a stento e la cosa era reciproca. A lui non piaceva il fatto che non avesse il fidanzato alla veneranda età di diciott'anni, per lui era strano, era una che voleva divertirsi, una poco di buono.
Più crescevo, più Alessandro mi stava stretto come i campi gialli di grano, il verde della pineta, il mare cristallino, fermo immobile. La sabbia, sabbia mobile nei miei sogni mi ingoiava impedendomi di camminare. Sabbia immobile. Pesava tutto, tutto era sotto gli occhi attenti di Alessandro, lui non voleva perdere il controllo di nulla, soprattutto di me che ero sua, una cosa sua. “Penso che se non lo ami più, dovresti dirglielo”. Isabella aveva ragione ma quello era il passo che non riuscivo a fare, pensavo di andare via per un po’, che avrebbe capito. Una sera che io e lui discutevamo per l’ennesima volta, mi guardò con uno sguardo diverso “Tanto sei mia. Io e te siamo destinati a stare insieme per sempre”. Neanche mi guardava, nemmeno ascoltava mentre parlavo di sogni, di progetti. Riuscii piano piano a fargli capire che ero seria, che andare a Roma a studiare non significava non tornare più. O peggio ancora, andarci solo per perdere tempo. Sembrò convincersi.
La mia partenza alla stazione tra la lunga fila di parenti e amici a salutarmi, sembrò un abbraccio infinito. Vedevo passare oltre il finestrino gli alberi, il verde e lo scorcio lontano del mare mentre andavo verso la mia nuova vita e il riflesso nel vetro era una me, leggera, piena di speranze. Speranze che non si infransero all'arrivo, quando la casa in affitto che avevo trovato al p.c. da dividere con due ragazze che come me venivano da lontano, si rivelò anche meglio di come avessi immaginato. Il tempo di posare i bagagli e conoscere le mie coinquiline che Alessandro fu il primo a messaggiarmi. Il tono non seppi decifrarlo diceva più o meno “Se non ce la fai, io sono qui ad aspettarti”. Mi venne da sorridere mentre le due ragazze mi circondavano di curiosità. Prendemmo il caffè, andammo insieme verso la facoltà perché imparassi il percorso. Mangiammo pizza freddissima e birra bollente che non avevamo smesso un attimo di parlare, di raccontarci. I percorsi lasciati, quelli futuri. Laura e Nadia, questi i nomi delle mie due compagne non erano fidanzate, Alessandro le avrebbe scartate subito dalla lista delle amiche da frequentare. Il mio soggiorno a Roma fu bello anche per loro.
L’autunno romantico di foglie gialle tra i viali smisurati, tutto sembrava enorme e bellissimo. Le telefonate ai miei erano incombenze a cadenza precisa, una sera sì una no. Stavo bene, lo avevano capito e tre settimane dopo riconoscevo anche facce e nomi del giro delle mie amiche di casa e facoltà. C’era tra tutti un viso che mi aveva colpito tanto, Dario. Veniva da un paesino calabrese, ridemmo un sacco dal primo momento in cui avevamo scambiato due chiacchiere. Era bello, occhi intensi, un sorriso dolcissimo, studiava anche lui architettura ed era pieno di entusiasmo e progetti. Spesso pranzavamo insieme anche senza il resto del gruppo. Mi sembrava una nuova felicità. Finché non cominciarono ad arrivare le telefonate di Alessandro allarmate, diverse, assillanti. “Mi sembri strana, distaccata, vengo da te se vuoi”. Ma non volevo e non lo capiva pensavo che appena scesa giù in paese gli avrei parlato, mi precedette, pensò di farmi una sorpresa, lo vidi sotto casa mentre con Dario rientravo dalla facoltà.
Mi fermai di colpo non potevo crederci. Era arrivato sotto casa, sapeva il posto, l’indirizzo. Mi guardò o meglio guardò Dario senza parlare. Prendemmo un caffè io e lui da soli. Naturalmente ci fu una scenata ma stavolta ero forte, non volevo nascondermi più. “Basta Alessandro è finita, mi dispiace”. Lui era tranquillo. “Non hai capito che non può finire tra noi. Sono venuto per portarti con me. L’ho detto pure ai tuoi”. Mi venne da ridere per quell’assurdità. Mi alzai per andare il più lontano possibile. “MI fai male, torna al paese. Io resto qui”. Mi stringeva forte il polso ma sentendomi determinata mollò. Sparì per un po’. Niente telefonate, niente messaggi per tre mesi. Io e Dario intanto ci frequentavamo, era bellissimo andare in giro, perdersi nella bellezza di un ponte, o stare con la testa sulle sue gambe a guardare le nuvole, sentendolo raccontare di casa sua, della vita che avrebbe voluto vivere. Quella vita che lo aveva spinto ad andare. Come me. Eravamo felici ed innamorati. Una parentesi rotta dal messaggio di Alessandro “Vengo da te, devi darmi una possibilità. L’ultima ti prego”. Mi sconvolse e ne parlai con Dario. Pensavo di dirgli tutto una volta per tutte. Un’ultima possibilità.
Nel fine settimana una telefonata annunciò l’arrivo di Alessandro “Sono alla stazione dobbiamo parlare”. Uscii di casa per svolgere delle pratiche per l’università al ritorno era lì. Mi invitò a parlare in macchina. Salii come un’incosciente. Era deciso, ma sembrava folle. “Non mi puoi lasciare, capito non puoi lasciarmi?”. Cercai di spiegargli che così faceva male ad entrambi. “Amo un altro” faci per aprire la portiera, non volevo aggiungere altro. Aprendo il portone sentii che mi stava alle spalle, il tempo di voltarmi, qualcosa luccicò tra le sue mani “Allora non hai capito se non sei mia, non puoi essere di nessuno” Vidi la canna di una pistola alzata verso la mia faccia e pensai solo “Muoio”. Lo sparo mi fece sobbalzare mi ritrovai a terra e il sangue stava per farmi svenire. Sentivo voci lontane, ovattate. Mi aveva sparato. Non potevo crederci, intorno a lui adesso c’era qualcuno, non riuscivo a capire. Era Dario che aveva afferrato il braccio di Alessandro deviando il colpo che aveva colpito il mio braccio di striscio.
Ricordo poche cose del dopo, il rumore della sirena, il letto di un ospedale e fiori, dietro, la faccia di Dario a sorridermi. Fiori, come quelli del nostro matrimonio. Abbiamo deciso che si poteva fare entrambe le cose, che si poteva fare tutte le cose che vuoi fare, scegliendo quello che veramente vuoi e noi volevamo stare insieme. La laurea la festeggiammo con gli amici tra le bomboniere del matrimonio. Giurai di vedere tra le lacrime di mamma anche un sorriso di felicità. Era bella Roma, era bello essere lì insieme. Erano felici tutti e quella volta finalmente anche io lo ero. Finalmente.
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