Rss di IlGiornaleWebScrivi a IlGiornaleWebFai di IlGiornaleWeb la tua home page
Sabato 13 settembre 2025    redazione   newsletter   login
CERCA   In IlGiornaleWeb    In Google
IlGiornaleWeb

RaccontiStefania Castella

CONDIVIDImyspacegooglediggtwitterdelicious invia ad un amicoversione per la stampa

05 Marzo 2016
Anche le notti più buie scivolano via
di Stefania Castella



Anche le notti più buie scivolano via
lascia andare il dolore

Ci sono certe volte in cui tutto ti sfugge, cerchi di mettere ordine ma ti sembra che ogni cosa si infili tra le dita e come farfalle che trovano una via di fuga, tutte le cose che vuoi afferrare e ordinare volano via. La testa rimbomba, la radio gracchia, le luci gialle delle auto si rincorrono e io maledico Aurora di avermi costretta nel traffico. Odio il traffico, e stare ferma ad aspettare. Aurora è un’amica ma soprattutto un medico, quell'appuntamento con lei aveva dovuto ricordarmelo più volte. Odio le visite, gli aghi, gli ospedali, e adesso odiavo lei e quel controllo ginecologico che per il mio parere era inutile infondo dall'ultima volta erano passati, che ne so, quattro anni, sì, più o meno da quando avevo partorito…

 

Avevo fretta, come sempre c’erano cose da correggere per l’ufficio, mi piaceva correggere cose che per prima leggevo, era bello, avere tra le mani qualcosa che nessuno avrebbe ancora letto, non era un lavoro ben pagato, anzi il più delle volte non era pagato per niente, ma era il mio lavoro, la mia identità, ero la prima ad entrare e l’ultima ad uscire dall'ufficio, quella che trascinava il lavoro anche fuori per continuare a casa, quella che non c’erano domeniche o giorni di pause, e non c’erano giornate di primavera allo zoo, “Che poi ci andiamo ok?”. C’ero io, il mio lavoro, e il pensiero che non volevo pensare: Claudio, che era stato un fidanzato troppo distratto, un marito troppo costretto, un padre troppo giovane per essere padre.

 

Ero incinta di Simone quando mi fu chiaro che Laura non era solo un’amica, e non era solo una segretaria. Chiaro. L’avevo rincorsa per le scale della metro rischiando di inciampare tra i gradini col pancione che mi ingombrava, solo per capire, per vedere come fosse. Era carina, era così diversa da me, io tonda, goffa, rossa, e con le lentiggini, mentre lei così sottile, bionda, eterea. Cavolo, avevo riempito il borsone dell’ospedale e quello più grosso, con il resto dei vestiti e della vita che trasferivo da mia madre. Ora Simone aveva quattro anni, io quasi trenta, ed eravamo quasi una famiglia, nonostante tutto. “Finito, visto? C’è voluto così poco, ma prima che vai, ti avverto che tra poco avrai trent'anni cara, e qui accanto si dà il caso che ci sia un amico senologo. Avanti passa anche da lì che poi sei a posto fino ai quaranta” la voce di Aurora-versione- medico non ammetteva repliche. Ero ancora in tempo per la pizza che avevo promesso a Simone, così mi lasciai convincere mentre controllavo il cellulare e i messaggi di Luca il mio direttore riguardo bozze, e correzioni. L’ecografo scivolava, e io ricordavo l’eccitazione di quando avevo il mio cucciolo nella pancia, le misure della testolina, le lacrimucce emozionate, e lui accanto a me. Il viso tondo del dottore si fermò di colpo, mi guardò poi si spostò su Aurora. “Vedo, vedo qualcosa che non mi convince. E’, sì, è un nodulo e…”

 

E parlavano ma io non li sentivo, sembrava fossero in un’altra camera, in un’altra dimensione, sentivo a tratti “Ospedale, con me…urgente…guarda quanti centimetri…è così giovane…” parlavano di me, ma nella testa avevo occluso ogni senso, non sentivo niente, vedevo solo Simone, la pizzeria che avrebbe chiuso, avevo fretta, dovevo andare, dovevo lavorare, sistemare quelle pagine. Dovevo tornare a casa, tornare a casa… C’era da fare dei controlli in ospedale, con Aurora, questo l’avevo capito, tutto il resto era vuoto, buio, e luci che sembravano ingoiarmi, dovetti fermarmi più volte, non vedevo la strada, non distinguevo la pioggia, mentre pioveva anche dagli occhi, credetti che sarei rimasta lì, ad affogare, per sempre, ma c’era Simone, e c’era la pizza, e dovetti avanzare anche quando mi strinse le gambe che quasi cadevo, come faceva sempre quando rientravo.

 

Mia madre sapeva già “Mi ha chiamata Aurora, viene con te domani in ospedale, sarà una cosa da nulla, vedrai”. Ma la sentii piangere più tardi in bagno, da sola. Odiavo gli ospedali, e Aurora lo sapeva, odiavo gli aghi e sapeva anche quello, così avvicinò la sua faccia alla mia per coprire l’ago “Guarda di là ok? Così non vedrai niente, guarda il quadro lì al muro, vedi? C’è il mare, guarda il mare…” Chiusi gli occhi e quell'ago aspirato mi disse che dovevo operarmi. “Dovresti dirglielo, infondo siete stati sposati” “No, non lo so, infondo è un bastardo traditore”. “Si ma è il padre di tuo figlio” Il discorso di Aurora non mi convinceva, guardavo le finestre strette della camera, la donna difronte a me in attesa di una mastectomia, e cominciai a pensare che fossi più grave di quello che potevo immaginare. “Scusami, lo dici perché pensi che non sopravvivrò?” Glielo dissi tra l’aria stupefatta e un filo di serietà. “Scema” mi rispose, mentre traghettavano la donna difronte verso la sala operatoria.

 

Non avevo voluto nessuno il giorno dell’intervento, era una cosa che dovevo affrontare da sola, solo Aurora era lì come medico, oltre che come amica, e passavamo il tempo a guardare ognuna dalla parte opposta senza sapere che dire. Ero lì da due giorni, e dall'ufficio mi arrivavano continui messaggi di Luca il direttore, due mesi e ancora non si vedeva il becco di un quattrino, Aurora mi sfilò il telefono dalle mani. “Lo vedi che non capisci niente, sei ancora a pensare a questo lavoro di merda? Non ti pagano ti hanno tolto pure l’ora d’aria che spetta ai detenuti, tuo figlio ti cerca e non ci sei mai. Torna in te, basta”. La guardai dritta negli occhi e forse, si aspettava chissà quale reazione. “Oh ti sembra questo il modo? Io potrei morire, sono malata io!” Scoppiammo a ridere come due bambine isteriche, avevo paura, e forse anche lei, ma aveva ragione, la malattia, il mio seno traditore, le cose che avrei dovuto affrontare, cominciavo a capire, che vivere era il mio dovere, che vivere mio figlio, e una vita vera, diversa, doveva essere il mio dovere. “Tanto non mi addormento” Dissi solo questo all'anestesista, mentre scivolavo nel sonno.

 

Al risveglio sentii una leggerezza così piacevole che credetti di essere morta e che fluttuavo in Paradiso, ma intercettai il viso della compagna dell’altro letto con le bende sul seno e sentii di essere stata fortunata ad essere viva, ad essere lì, chiusi gli occhi mentre dalla porta entrava un grande mazzo di rose rosse, e il viso del mio ex marito, finsi di dormire, non avevo alcuna intenzione di rivederlo, di vedere la sua faccia da traditore, qualcosa dentro era sveglio come mai prima di allora. Fece un giravolta, posò le rose e uscì com'era entrato, mentre il telefono vibrava un messaggio di Luca “Ufficio” presi quell'affare con un po’ di fatica, iniziai a digitare “Vi- A- Effe- Effe… Vaffanculo” vaffanculo, non ci torno lì a farmi succhiare il sangue, non ci parlo con un tipo che mi ha lasciata da sola quando avevo bisogno di una mano, non metto più la mia vita in pausa per una banda di vampiri che prenderanno linfa e ossigeno.

 

Telefonai a casa, per parlare col mio piccolo “Andiamo allo zoo capito, appena esco ci andiamo, e poi sai cosa? Ci facciamo una bella vacanza io e te? Capito, ti amo tanto piccolino torno presto”. Lasciai l’ospedale con mille sentimenti nuovi, camminando come camminano i sopravvissuti, quelli che ringraziamo anche solo per un filo d’aria che sentono che li attraversa. Dentro il senso di colpa per aver detto alla mia compagna difronte “Benigno” mentre lei era ancora lì a combattere, dentro una linfa nuova, che mi restituiva tutto quello che se non avessi avuto paura di perdere non avrei mai ritrovato.

 

Dovevo dire grazie ad Aurora, grazie alle cose che avevo odiato, grazie ai percorsi strani della vita che non puoi sempre controllare, che spesso inaspettatamente ti mostrano la strada anche quando credevi di averla perduta come una farfalla ti sfugge dalle dita, la afferri, la lasci volare via e continui ad andare, lei vola via e tu continui comunque, ad andare…








  Altre in "Racconti"