 | un ospedale psichiatrico |
Sento il freddo, sento ancora il freddo dentro che non passa mai. Sento la puzza, di piscio e di muffa. Scrostati muri e cessi in stanze che sembrano cessi. Le distingui dalla tazza e dalla bottiglia che sta nella tazza così che non risalgono i topi. Verde sui muri, alle finestre, fuori dalle finestre sulle facce della gente. Letti su letti di ferro e legacci e coperte impregnate di schifo di vita. Dormire è la cosa che serve, dormire è la cosa che aiuta. Dormire è la cosa che resta da fare. Ho smesso di urlare. Io ho smesso presto, gli altri no. Urlavano di giorno e di notte. E più urlavano più le prendevano, più le prendevano più urlavano. Poi scomparivano tra i corridoi. Altissime mura ingoiavano le urla.
Sento il rumore del ferro dei catenacci, chi urla lo chiudono a chiave. Pure gli studenti si chiudono a chiave. Ci vengono a studiare. Sono tutti ordinati in fila, tutti bianchi puliti e le cuffiette, e i grembiuli senza macchie. Pure i maschi ce li hanno. Delle femmine si vedono le caviglie, belle sottili, non come quelle di queste altre rinchiuse, caviglie grosse, gonfie, marroni di vene deformi. Le vedo perché ho smesso di urlare, allora mi fanno spostare in giardino ogni tanto e allora vedo le facce di altri, e femmine che sembrano femmine vere. E sento la carezza di Maria, l’infermiera gentile con le mani rugose che tagliano il viso, e due occhi di madre che dicono “forza, non piangere” e dicono “è inutile urlare, se urli ti menano. E poi a che serve gridà –Non so’ matto- in un posto di matti? Vedrai che meno casino fai, meno casino avrai, figlio mio.
Prima o poi tu vai fuori da qui”. Io ci credevo, perché lei era gentile portava sigarette e panini e qualche pezzetto di cioccolata, e aveva sempre una parola per ognuno. Pure per Luca che quando la vedeva la ricorreva e le mostrava il culo facendo le smorfie. In giardino era bello, eravamo come gli altri, e se sapevi tenere un maglione da parte potevi far finta di essere un altro. E cosi qualche volta ho parlato con quell'infermiera carina. Le ho detto che c’avevo mio fratello in “comunità” che è così che lo chiamano fuori sto’ cesso di posto. E lei ci ha creduto e così ci siamo incontrati ogni tanto sulla panchina dietro l’ingresso, poi ci ha visto Marisa, si è fatta vicina ha chiesto da fumare che sembrava normale e poi l’ha guardata coi suoi occhi a palla e le ha detto “Signorì ma che state a sentì. Questo è pazzo” E ci giurerei che il suo viso è cambiato e da allora ha smesso di passarmi vicino. E non ho più visto quel sorriso bello con le fossette e la bocca rosata.
Lei era la cosa più bella di tutte le cose che ho visto lì dentro. Vedo un bambino soffiare in un cerchio, ne esce una bolla leggera che vola un pochino e poi si dissolve scoppiando che bruciano gli occhi, e Caterina si strofinava i suoi forte forte, e Dino si batteva la fronte dalla felicità, quando Michele lavava il suo cane e chiudeva due dita a cerchietto e faceva le bolle che ci vedevamo dentro le facce un po’ buffe e tutte un po’ storte, allungate allargarsi. Poi Michele smetteva che sennò gli finiva il sapone per lavare Ercolino il suo povero cane spellato che diceva di dargliene un po’ pure per farcelo bere “così è pulito pure dentro”. Io li guardo un po’ tutti e mi chiedo se sono pur io come loro. Non so perché io sono qui. So che Dino l’hanno beccato con le mani al collo della vicina di casa, che voleva ammazzarla. Che Caterina insegnava alle medie e così all'improvviso ha iniziato a dare di matto. Ogni tanto si tira su’ la gonna e balla come certe soubrette del teatro. E noi battiamo le mani. Non so se è matta davvero. Non so se sono matto davvero. So che è iniziato con mamma che è volata giù dalla finestra.
Dicevano che la colpa era mia. Che ero strano, che ero malato. Che inventavo le cose. Lo diceva mio padre che certe volte mi si infilava nel letto. Lo confermava il maestro di violino, che certe volte mi abbracciava e diceva -Zitto- Forse si conoscevano bene lui e il papà quando dicevano che ero “Matto. Da rinchiudere”. E mi hanno rinchiuso. E non ho più visto mio padre, e non ho più suonato il violino. E solo questo mi dispiaceva, e non ci ho creduto mai che chi ti vuole bene ti stringe così forte. Da farti del male. E forse è stato meglio stare qui. Ho smesso di urlare e non le ho più prese. Ho imparato a conservare il pane, e le coperte, a tenere la mente ferma a non farmi notare troppo. A pensare di uscire e non come il tipo di quella canzone che “…sa volare” che sì, pure qui Mario pensava di volare, ma non è stato molto poetico il rumore che ha fatto sul cemento al bordo del giardino e la macchia schifosa che ha lasciato per terra. Hanno urlato tutti e Dino si batteva talmente tanto la fronte da lasciarsi i lividi e c’era chi gridava troppo, troppo forte così l’hanno portato via, in quelle stanze dove dopo un po’ smettono.
Qualcuno è ritornato così rimbecillito che nemmeno si ricordava il nome. Io piangevo zitto, senza farmi sentire che infondo al corridoio non ci volevo andare. Ho avuto paura che mi prendessero all'improvviso per portarmi via lì dentro, ho avuto paura di non uscire più da quelle stanze, e di scoprire che poi alla fine ero matto veramente. Io non so se lo sono, o se era il resto a non essere normale. E se mia madre s’è ammazzata veramente… Io voglio solo dimenticare. Quando il cancello si è spalancato ero già grande e intorno a me non c’era più traccia di niente, né mio padre né il maestro, né l’infermiera carina né quella gentile che era andata ormai in pensione. E non sapevo più nemmeno dove andare. Sono rimasto fermo a chiedermi a che è servito il manicomio?
E chi era veramente il matto. E se ero veramente matto… ora e un giorno dopo l’altro, di tutta quella vita e quello che restava che cosa ne avrei fatto?...
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