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28 Maggio 2016
...E mi liberavo di me
di Stefania Castella



...E mi liberavo di me
dipinto di E. Munch

“Mein lieber Arzt…” Mio caro dottore nel silenzio della mia camera le scrivo ancora, l’ennesima lettera che non coglierà. Guardo le lenzuola sfatte, parlano di noi. Sanno di colonia e di tabacco Meine Liebe, giuro di averlo sentito, di averci creduto. E ricordo la prima delle volte che ho incrociato il suo sguardo corrucciato, piegato dalla vita, dallo studio, arido di timori inconsci.

 

Io, il mio sguardo ancora libero, fresco di fiori, prati incolti da camminare scalzi, strofinarci i gomiti sull’erba fresca, perdersi nella bellezza. Grandi mani tra i capelli, mani di saggezza e rughe da insegnare a vivere, folle voglia di tornare indietro, folle voglia di pensare a niente, e desiderio di entrare nella testa, nei pensieri tra i capelli, sotto pelle. La vedo sa Herr Doktor, con la sua bella moglie, grassoccia, informe, con gli occhi severi, fiero con la famiglia intorno. Impeccabili. Quanto ci ho pianto e quanto ci ho creduto, ho piegato il mio vestito bello, per seguirla ovunque lei andasse, solo per sentire la sua voce. Un’ombra consumata. Ecco cosa diventavo, mio caro dottore, nel gioco perverso ha giocato con me, facendomi credere che fosse una forma d’amore.

 

Diceva che tocca fidarsi per aprire le porte del Paradiso. Mi sono fidata delle sue dita che scivolavano piano oltre la gonna, tra i bottoni, sotto di noi uno scomodo divano, intorno a noi la nebbia informe del suo fumo, opprimente, davanti a noi il terzo Noi. Lui che ci guardava, l’uomo che bramava me, l’uomo che accettava di essere ennesima pedina della sua scacchiera. E via l’innocenza leggera che svaniva guardando quegli occhi guardarmi. “Prendila” ho sentito le sue labbra che si schiudevano verso di lui, sentivo che ordinava e lui eseguiva. Vi ho visti, confusi entrambi, assetati affamati cancellare i miei sogni, confondermi, rendendomi complice inutilmente complice.

 

Mi assolvo, vi assolvo. Eravamo d’accordo. Eravamo tre menti e un corpo solo, disperati, sfatti strappati, dispersi di sesso e poi ognuno al suo posto. Ripiego i vestiti, mi dico -Ora basta- ho deciso di andare. Ma non è che un’inutile tentativo che sbatte sulle facce un po’ torve davanti. No non mi libererò di voi due, oramai i nostri pensieri sono un solo pensiero. Corvi neri si affacciano alla finestra, becchi aguzzi scherniscono i miei inutili tentativi di fuga. Ovunque io vada sareste con me, la macchia indelebile che a qualcuna non pesa, su me è troppo ingombrante per reggere ancora. Ho sognato di andare, lasciarvi alle spalle, immersa nell’acqua sulla testa quattro mani, le vostre, e cercare respiro e sentirmi soffocare. Acqua, della spiaggia dove correvamo insieme in pantaloni rabboccati, schizzi come ragazzini, distesi sulla riva, io al centro e voi affianco, centro del gioco giocato per me.

 

Occhi socchiusi, sento le bocche, le mani di entrambi. “Un buon partito per la mia piccolina e tanti pargoletti…” mia madre sorseggia il suo tè con le amiche, lo sento il disgusto degli sguardi su me, loro lo sanno, tutti lo sanno, ed io che mi chiudo la porta alle spalle, non voglio vedere non voglio sentire. Non voci, sospiri e gemiti inutili, nessuna illusione mi terrà ancora qui. -Meine Liebe- ho accettato il suo gioco, credevo finisse che un giorno, io, sarei stata soltanto per lei.

La vedo ora, abbracciato al calore di casa, le briciole restano, solo quello mi resta, dopo tutto il sudore, l’amore, illusione. Proverò questo fumo che una donna non deve, assaggerò questo fiele amarissimo che ombreggia il bicchiere. Le lascio soltanto il grande rimpianto di avere creduto di poter scalfire il suo cuore in inverno. Spengo tutto, lascio tutto, una finestra mi salva. I corvi che restano sapevan già tutto.

 

Londra 1930








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