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30 Luglio 2016
La musa
di Stefania Castella



La musa
un disegno di Renato Guttuso

Girati, guardami, fermati.

 

Resto ferma, resto muta. Mi viene da ridere. Non posso smettere di ridere, non posso smettere di essere quello che sono. 

 

Questo lo sai. Lo sa. Lo sanno. La vita va presa a sorsi grandi, enormi, tu dicevi “per te potrei smettere di bere…” non ci credevo, e nemmeno tu “perché -ti dicevo- se sei felice brindi, se sei triste, bevi per dimenticare…” e intanto ingoiavo l’ennesima esplosione di rabbia.

 

Frantumata col bicchiere sulla tela. La tua rabbia, in fondo ti faceva bene, la gelosia ispirava. Io ti ispiravo. Il desiderio di me, ti ispirava. Legata, imprigionata per sempre, resterò per sempre, tra i salotti rumorosi, quelli che ho desiderato, quelli dove il mio passo faceva silenzio, il mio incedere voltare le teste. Io dicevo di me “troppo lunga, troppo magra” ed è stata una fortuna, forse.

 

E adesso ridi anche tu perché lo sai, non si cambia mai veramente, conosci l’ombra, il freddo, il buio, te li porti appresso e cerchi solo di non farti raggiungere. Ero stanca sai, di quella fame, di quell’acqua che non purifica, che scortica le gambe, che dovevo strofinare doloranti, mentre le foglie tagliavano la pelle. Mondina. Ero stata una mondina, e sarta, e modella, col mio muovere elegante.

 

Ho imparato senza mai essere in gabbia. Mostrata, senza mai essere una fiera esposta, nonostante ne avessi la grazia. Quei salotti li ho percorsi a modo mio, a piedi nudi, e il mio principe bellissimo lo capiva, lo sguardo sempre dritto su di me, mentre cambiava la mia vita. Ho creduto in una favola, ci ho creduto e si è avverata, mi ci sono stretta con tutte le forze, contro il mondo che non slega il sentimento e l’interesse. Se fosse stato solo l’interesse, non sarebbe stato così, non saremmo stati così, non sarebbero venuti loro, dolci piccole lucette a rischiararci la vita, venendo al mondo. Mentre mi sciolgo al dolore, al pensiero di loro che crescono, e torna a bruciare la lunga ferita che porto nel cuore. Rimpiango.

 

Piango ridendo, rido piangendo, è da sempre così. Mi asciugo al ricordo, e guardo il riflesso di me sui tuoi fogli. Ero io, anche solo in un tratto, nei segni sul bianco, a matita, ad olio, a penna e nei bianchi, nei neri, nel vulcano infuocato di un rosso potente che acceca, come accecava la bellezza della terra, tua madre, ondulate montagne somigliano a fianchi, che tu modellavi.

 

Bastava una piccola leggera movenza, un soffio di anche, e si abbagliavano gli occhi. E Roma taceva sorniona. Spalla contro spalla, prima di incrociarci con gli occhi, mi entrava nel cuore un dipinto: “Lo voglio” ricordo che ho detto, e la tua voce scavava profonda. La tua voce era già impressa prima di essere. Ogni tuo segno, era languido abbraccio, ogni mio tratto, era parte di me. Anni, per anni, il caldo riverbero di una città assolata osservava in silenzio, in silenzio bisbigliava. Mormorava, di me di te, di loro.

 

Di noi, si può essere amati, amanti, perfetti mariti e mogli, e fedeli nell'infedeltà, e sofferti nelle felicità. Strappato, lontano, ingabbiato, mancate carezze, ho cercato tra i fogli, scoperto di averti pensato da sempre, e che sempre mi avevi pensato. E resteremo sui pensieri degli altri che cavalcammo senza badarci, resterà il riflesso di ognuno di noi, e il perfetto trinomio che eravate per me, e il perfetto incarnarsi che tu eri per me. Raggiungiamoci studiandoci, perdoniamoci guardandoci.

 

E ridiamo, forte, come facevamo un tempo, ridiamo più forte, anche questo a suo modo lenisce la morte. A Marta.








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