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RaccontiStefania Castella

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03 Dicembre 2016
Quel lungo inverno
di Stefania Castella



Quel lungo inverno
paura del buio

Ci sono dentro, dentro fino al collo. Lo capisco mentre stanca tolgo e metto via gli occhiali la luce del p.c. mi appanna la vista. E’ buio fuori, la luce spenta la piccola dorme stremata per l’ennesima nottataccia. Squilla il suo numero cercherò di far finta di niente. M. mi chiama vuole raccontare, sistemare le cose, dire la sua versione, quella che per l’opinione pubblica era un caso archiviato, mai rimosso dalla coscienza.

 

Erano trent'anni fatti tutti, dai diciannove ai quasi cinquanta di oggi. Omicidio il più infimo, il più difficile da cancellare anche dalla parte che un tempo avrebbe potuto difenderla. M. aveva diciannove anni una vita passata per strada, sballata di quelle catalogate “difficili”. Un pancione improvviso, un padre che sparisce, una madre che ti tira su’ e non sa più come riprenderti dalla droga, dall'abbandono dall'abisso. M. partorisce una bimba sana che cresce tra la polvere e la vita assurda della madre, neanche vent’anni aveva M. quando sulle pagine dei quotidiani la sua faccia aveva riportata sotto la didascalia “la madre assassina”.

 

La testa a pezzi la bimba neanche un anno finiva la sua tenera vita in un lago di sangue, e non era solo quello impossibile da digerire, quanto il fatto che intorno si era dipanata la storia di una setta, la storia macabra di una truce conseguenza, fine di un’anima innocente per la madre, posseduta dal demonio. Questa l’assurda verità urlata ai giornalisti all'epoca. Verità che nel tempo M. ha sempre ripetuto. “Esce oggi, vai e parlaci” direttore perentorio, senza fronzoli, il contatto passato da terza mano, e la ricerca di quella donna, che si diceva avesse intenzione di raccogliere in un memoriale la storia di quel delitto dal movente inconcepibile.

 

Al giornale la vicenda non poteva sfuggire. “Solo tu potresti farlo. Sei giustamente scettica, probabilmente non credente, ma su questo potresti smentirmi. Sei appassionata di storie nere. Vai, chi potrebbe più di te? Ti lascio due secondi di replica. Smentiscimi pure se…” Non smentii. E non perché “un direttore ha sempre ragione” Non solo per quello… “Adesso faccio una telefonata amore, mentre guardi la tv”. Era un martedì sera, la prima volta che chiamavo M. per rompere il ghiaccio, capire cosa e come volesse raccontare la sua storia. Fu la prima di tante telefonate.

 

La sua voce reticente, quasi sussurrata, un accento indecifrabile. “Voglio raccontare la verità. La verità è che qualcuno mi voleva male. Prima di avere la bimba, stavo già male, ho passato anni tra dolore fisico e morale che non sapevo spiegarmi. Fatto centinaia di controlli medici per capire l’origine del mio malessere. Poi ho capito, l’ho capito la prima volta che dopo anni entravo in Chiesa e dopo essere svenuta mia madre mi ha convinta a parlare con un prete. Un prete esorcista”. Lei parlava piano e poi man mano sempre più veloce, accesi il registratore, la voce tetra e profonda cominciò a diffondersi per il salone vuoto. Io e la mia piccola, vivevamo fuori città un piccolo paesino di provincia, dove le villette a schiera si somigliano un po’ tutte, posto tranquillo due minuti dal centro. Sole. Ma mai in vita mia ho provato quel senso di inquietudine come dopo aver incrociato M, e la sua storia.

 

“Mamma corri” la vocina improvvisa della bimba interruppe il dialogo, tutto a un tratto non si sentiva bene, la faccina pallida. “Ho vomitato” dovetti scusarmi con la mia interlocutrice e mettere una pausa. La bimba improvvisamente aveva la febbre. Quella fu la prima sera in bianco. “Dormo con te “. Per la quarta volta si era svegliata infilandosi nel lettone con le manine piccole aggrappate a me, come se qualcosa le avesse fatto paura. “E se mi scappa la pipì?” “Non ti scappa, l’abbiamo appena fatta” “E se mi scappa la pipì?” La bimba ripeteva come un mantra quella frase guardando il vuoto e un improvviso punto fisso verso il muro, non c’era il micio che di solito si acciambellava sui miei piedi, non c’era nulla da vedere oltre il buio fuori dalla camera, dove lei guardava. Notte dopo notte, i risvegli diventarono sempre più frequenti. “Io non ho fatto niente alla mia bimba, è stato qualcosa, qualcun altro. Tu mi credi?” “Io non devo crederti, devo soltanto ascoltarti”.

 

La piccola stava quasi meglio e aveva deciso di tornare a scuola per le prove della recita di Natale. Una mattina fredda, maglione fino alle dita, ascoltavo M. parlare e intanto raccoglievo appunti. Avevo dovuto riavviare più di una volta, il P.c. che improvvisamente aveva smesso di connettersi. Fuori una leggera coltre di neve copriva la strada grigia. Silenzio. “Raccontami quel giorno”. “Tu credi? Sei credente?” “Ti prego M. dimmi di te” “E’ importante che io lo sappia. Voglio saper se mi credi. Come posso raccontare la verità se non mi credi. Tu credi?” Pensai dopo, molto dopo a quella frase. In quel momento la mia sigaretta mi distolse mentre la cenere sporcava i tasti distrattamente dissi “Si, ti credo” E lei parlò. “Aveva un nome” “Chi? Cosa?” “Il demone che possedeva me. Aveva un nome me lo disse Padre Abel quando ci andai. Una delle tante volte in cui tentai. Stavo male sempre peggio, soprattutto quando entravo in Chiesa, quando tentavo di pregare, quando qualcuno pregava per me. Non pregate per me dicevo. E intorno a me ridevano. Anche Luca rideva. Io lo amavo ero già fuori di casa da mesi perché con mia madre ormai non era che un litigio continuo e vivevo insieme a un gruppo di ragazzi. Ho scoperto di essere incinta e ho avuto paura. Paura che qualcosa potesse far male al bimbo.

 

Invece la bambina era sana. Lui voleva me, e ha preso lei.” Sentii un tonfo in camera da pranzo e telefono attaccato al collo mi spinsi a vedere cosa fosse. Un dolore lancinante mi prese al piede scalzo. C’era un quadretto piccolo, appoggiato alla mensola in cucina, la raffigurazione di un arcangelo qualcosa a ricordo di una gita regalatomi da mia madre, in mille pezzi. Pensai che fosse stato il gatto e intanto che cercavo di rimediare, lei parlava, il vivavoce mi aiutò. “Mettici un po’ di zucchero fermerà il sangue” Disse la voce. Eppure non poteva sapere… Continuava a raccontare, e sembrava una cantilena, forse per il dolore, forse, non saprei dirlo, ma non capivo cosa stesse ripetendo. Quella voce rimbombante per la stanza cominciava a farmi stare male. Mi voltai di scatto, c’era qualcosa dietro me.

 

E dallo specchio come un’ombra qualcosa schizzo a fianco a me dileguandosi furtiva. Sobbalzai allo squillo del telefono di casa. “Scusami è la scuola devo rispondere”. E riattaccai. La neve morbida sembrava una carezza ma avevo il cuore a mille mentre correvo verso scuola. “E’ così, da stamattina fissa il vuoto e non risponde, non so cosa succede, per questo ti ho chiamata”. Stefania la maestra della bimba mi conosce da una vita, e sa che la piccola è una bimbetta vispa e intelligente, la conosce da quando era nel pancione. Si è bagnata se l’è fatta addosso. E’ successo qualcosa c’è qualcosa che non va?” Mi avvicinai allo sguardo perso della bimba e mille congetture mi si accalcarono nella testa. L’abbracciai e lei mi guardò impaurita stringendomi al collo “Mamma non riuscivo a muovermi, e mi è scappata. Mamma avevo paura”. Me lo ha ripetuto tante altre volte “Avevo paura.” E non riusciva a spiegarmi di cosa. “Chi dorme nella culla mamma chi dorme nella culla?” La notte era iniziato il rituale del lettone e non bastò a tranquillizzarla, cominciò a ripetere l’assurda frase “Chi dorme nella culla mamma?” in modo ossessivo, notte su notte.

 

La mia testa scoppiava e più di una volta non tenni la calma. “Nessuno capito! Non ci dorme nessuno in quella cazzo di culla se tu non ci dormi ok? Ci vedi qualcuno? Ci vedi qualcuno?” La mia voce fece schizzar via il gatto e impallidire il viso piccolo di quella bimba davanti a me, che sembrava non riconoscermi. Fece di sì con la testa e una lacrima le sbucò dagli occhi. Ero stanca stravolta, non so come riprendemmo a dormire, e passavamo tutte le notti così. Mentre il lavoro non riuscivo più a seguirlo. Dalla redazione arrivavano notizie, telefonate che non riuscivo a raccogliere, persi più di un lavoro non potevo seguire seguivo M. che mi chiamava a tutte le ore per raccontare quella parte della sua vita che sarebbe diventata un romanzo, e seguivo mia figlia che mi sfuggiva dalle mani. Dovetti chiamare mia madre per farmi dare una mano, almeno per un po’ il tempo di raccogliere tutto il materiale che sarebbe servito a chiudere quella storia. “L’ho trovata così. Quella mattina sono uscita a comprare una dose, la bimba dormiva, ero sola lei dormiva. Al ritorno la sua testa era in mille pezzi. Non sono stata io”. La storia di M. non aveva retto e se non fosse stato per l’abilità del suo avvocato avrebbe avuto l’ergastolo. “Non sono stata io. È stato lui, me l’ha portata via. Io lo sentivo, mi parlava, diceva che mi avrebbe preso la cosa più cara che avevo. Lo vedevo, lo sentivo. Nel riflesso degli spechi, più di una volta ho visto la sua faccia”. “Nel riflesso dello specchio?” Lo dissi così “Sì, non bisognerebbe stare troppo a fissare gli specchi. Dentro ci trovi cose che non dovresti vedere. Un riflesso di qualcosa di opposto, un riflesso di qualcosa che sta dietro. Tu vedi qualcosa?” Quella voce domandava, lo faceva troppo spesso. Il suo numero me lo aveva passato una donna appartenente a una congregazione. Improvvisamente apparsa con una lettera alla direzione, tra le mani del direttore del mio giornale. Quel tramite chiedeva di parlare con un giornalista, che la persona che gli avrebbe presentato aveva una storia da raccontare, molto forte. Questo sapevo, e andai cercare il nome di questa donna. La congregazione alla quale diceva di appartenere. Non ce n’era traccia. Spulciai navigando per ore, cercai di telefonare e dopo ore una voce mi rispose che tale R. L. non era lì, non ne sapevano niente. Cominciavo a non capire bene e dalla redazione nessuna risposta. Non era stata che una telefonata che aveva lascito un contatto.

 

La storia c’era quindi perché farsi tanti problemi…E invece i problemi cominciavano a farsi strada. “Vieni a casa per favore” Nel mezzo di un consiglio comunale dovetti mollare tutto e andare, la chiamata di mia madre mi allertava. Trovai a piccola in piedi sul Tavolo di cucina, con lo sguardo allucinato. Si leccava le mani come un gatto guardava oltrepassandoci come non fossimo lì. Non riuscimmo a tenerla quando cominciò a saltare, dimenarsi rischiando di cascare giù. “Devi fare qualcosa. Portala da uno specialista c’è qualcosa che non va” Poteva essere la scuola, avevo il terrore che avesse subito maltrattamenti, ma ero sicura che non poteva essere così, conoscevo le maestre da una vita. C’era qualcosa che non andava, lo sapevo anch'io. “Potrebbe essere una forma di autismo” Lo dissi senza guardare negli occhi mia madre. Poteva essere … Le mani al collo qualcosa mi strangolava mi svegliai madida di sudore in piena notte, seduta al centro del letto la piccola, mi guardava e sogghignava. Di colpo avvicinò la faccia alla mia, cercai di non tremare.

 

Pensai che avrebbe spalancato la bocca che mi avrebbe morso e non sapevo cosa fare, non volevo sembrare spaventata, mi abbracciò guardandomi come se mi vedesse per la prima volta. E dormì così stretta a me. “Mi credi?” Continuava a rimbombare nella testa quella frase. E continuava a squillare il telefono M. il suo numero al quale non rispondevo cominciava a diventare un’ossessione, avevo bisogno di tempo e non pensare. Non riuscivo ad ascoltare più quelle frasi, quella voce, quelle domande “Sono io che devo fare le domande” le dissi spazientita all'ennesima telefonata che dovetti prendere per forza. Erano le undici di sera avrebbe continuato a squillare se non avessi risposto. “No io voglio sapere se tu credi in me”. “Chi sei tu perché dovrei credere in te? Sei stata in galera per la morte di un’anima innocente per la legge sei stata tu” “Sono stato io” la voce era diventata più roca. La bimba era fuori in giardino con mia madre, le guardavo dalla finestra. “Sono stato io” “Chi sei tu?” “Te l’ho detto chi sono” Ripeté un nome incomprensibile “Dimmi tu chi sono? Dimmi, tu credi in me? Credi in quello che ti dico? La vedo sai, è lì che gioca guarda è così carina. Tu non hai mai paura? Tu credi? In cosa credi?”

 

La piccola si voltò alzando la testa verso la mia finestra, le sorrisi “Dille di stare attenta” Disse la voce “A cosa? Che cosa dici ma che cazzo dici? Chi cazzo sei?” Persi il controllo mentre vedevo la piccola guardare fisso me, mia madre non era nella mia visuale non riuscivo a vederla e dietro la piccola s’avvicinava qualcosa una bestia, una cosa grossa, un cane non capivo cosa fosse. Spalancai la finestra, il gelo entrò di botto gridai più forte che potevo e per non perdere tempo pensai di scavalcare la finestra ma era troppo alto, potevo fare il giro correre giù mentre la voce al telefono rideva forte. “Mi credi? O no?” Corsi per le scale spalancai la porta, mia figlia era seduta nella neve, mia madre a fianco. Sorridevano non c’era nulla non si vedeva nulla. Non sapevo cosa fosse se ero stata io, se…

 

Tornai di sopra senza dire nulla il telefono perso stra i cuscini del divano. “Sei lì? Dimmi cosa vedi? In cosa credi?” “Credo In Dio. Fattelo bastare” “E credi in me?” “Credo in Dio, e credo nel bene e credo nel male che esiste. Ma no, non sperare che io ti dica che sì, che credo in te. So che esisti ma io credo in Dio”. Pregai mentalmente e le parole sgorgarono come fiume. II telefono si spense e da quel momento rifiutai di continuare. Quel pezzo non uscì. Mia figlia smise di guardare il vuoto nella notte. Tornammo ognuno alla vita di prima e qualcosa di sospeso che non riuscii a capire restò non detto. Restò fermo nel tempo in mezzo alla neve di quel lunghissimo inverno.








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