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14 Gennaio 2017
Gli occhi di Anna
di Stefania Castella



Gli occhi di Anna
occhi chiusi

Anna era piccolina, le gambe sottili, al cappotto più grosso di un paio di taglie, mancava un bottone. Luisa più grande di quattro anni, padrona del cappotto prima di lei, le stesse gambette sottili, stesse ginocchia affiancate, le mani ordinate, la schiena diritta. La sala d’aspetto del dottor D’Ambrosio era sempre affollata, ma non era un fastidio, anzi il tepore faceva star bene che era un peccato doversene andare.

 

A casa finestre e balconi di legno vecchiotto mai chiusi per bene che per evitare gli spifferi d’aria bisognava attaccarci coperte davanti. Mamma faceva lavoretti di cucito, papà si arrangiava come poteva, cuoco, barista, autista un po’ mille cose per tirare avanti. Luisa la prima un po’ lavoricchiava, ad Anna toccava restarsene a casa, aiutava la mamma, almeno prima di quella sventura. Quanto le mancava la scuola, tutto sembrava più bello, le sedie di legno lucido, i banchetti con sopra l’intaglio per metter le penne, i bagni puliti, lo specchio gigante, e loro minuscoli coi piedi tirati più su per guardarcisi dentro, gli schizzi di acqua, e la cosa più bella, la maestra Teresa.

 

La maestra Teresa, i capelli dorati, il rossetto rosato le guance rotonde, l’abbracciava stretta, diceva “la mia Annina” e sembrava una mamma, anche quando prendeva pezzetti di merenda dai cestini del pranzo. Le pareti coperte, disegni e vocali, l’apetta, la casa, la zeta di zanzara. Ce n’erano tante di zanzare d’estate, ce n’erano tante quell’ultima estate, il sole, le ombre, scomparso quel sole, restava soltanto quel buio e quell'ombra. I ricordi confusi, la mamma, le lacrime, piangeva così tanto che Annina pensava che forse l‘avrebbe trovata asciugata del tutto.

 

Quell'estate la mamma piangeva più spesso, e lei tante volte l’aveva abbracciata tenuta così come fanno le mamme, e invece era figlia, e pure piccina, ma quella sua mamma sembrava più figlia di lei. Quel giorno lui era un po’ più nervoso e gridava, e rientrò e spalancò la finestra, e gridava e il caldo, e il caldo era troppo e le uova non c’erano in frigo e nemmeno qualcosa di fresco da bere, e lui era nervoso e iniziò a trascinarla, a tirarle i capelli, e lei piccola zitta non diceva niente e Luisa non c’era, e allora pensò che toccava aiutarla quella mamma piccina e così tra quei due si infilò all'improvviso e ne prese di schiaffi e di calci pesanti, e uno più forte la fece sbandare, non vide più nulla non sentì più rumori.

 

Non c’era più il caldo, non c’erano urla, non c’erano lacrime, non c’era più nulla. Il buio avanzò da quel giorno, lentamente e poi sempre più forte, e un orecchio sentiva di meno, e il dottore diceva “signora è un timpano, che può rimarginarsi, ma la percentuale è bla bla bla e non sarà come prima, così come la vista e bla bla bla” e coglieva soltanto piccoli stralci di voci dei grandi. E non sentì più come prima e non vide più come prima e “dobbiamo aspettare per tentare un’operazione il danno è importante e bla bla bla”.

 

Pensava che i grandi si capiscono tra loro. E il resto del mondo si capiva da solo ed iniziò a guardarla da lontano “è mezza stonata” diceva qualcuno “non vedete è cecata” “non sente più un tubo” “Annina la scema” anche i piccoli a volte non capiscono bene, e non lo capisci perché ti guardano strano. E così niente scuola, un anno dopo l’altro, e niente maestra, e i ricordi restarono l’unico posto in cui rifugiarsi. Ma il tempo passava e Annina cresceva, Luisa le leggeva i libri di storia, le insegnava cose, e la mamma era sempre più stanca, ma adesso era soltanto un’ombra, e anche quel padre, era macchia sfocata. Ma da quell'incidente non parlavano più. Almeno non si sentiva più urlare.

 

Qualche vota le mettevano anche una mano sulla testa come si fa con i cuccioli e sentiva “poverina” lo sentiva spesso, e poi arrivò il giorno dell’operazione. Un giorno importante in cui tutto cambiava, tornare a vedere, provare di nuovo. E in effetti cambiò. "E' riuscita signora, aspettiamo e cerchiamo di capire come procede” diceva il dottore. E la clinica, e il calore, il sonno pesante il risveglio e le bende, e un cammino da fare tutto quanto all'indietro. Imparare accettare le forme che man mano si facevano forma. Una visita dopo l’altra era tutto più chiaro, così chiaro che piano piano rivide quello che un tempo era stato il suo mondo. Le piastrelle scheggiate la stufa a scaldare e trascinare per casa, il padre invecchiato, la madre smagrita, la tristezza enorme di un mondo lasciato nell'ombra per anni.

 

E ogni giorno il suo sguardo ogni volta più nitido scorgeva ricordi legati a una vita che adesso non aveva più quella luce che prima nel buio lei inventava per sé. “Accompagnami Luì” le disse quel giorno, “c’ho bisogno di parlà col dottore” e Luisa annuì. La fila di gente seduta, le poltrone di pelle marrone. Annina ricordò quante frasi diceva il dottore, quante cose che aveva da dire, parole e parole che lei non coglieva, e adesso che poteva guardarlo magari riusciva a capirci di più. “Che dici che hai? problemi? fastidi?” e ancora quel Bla e bla e poi bla… “Non è chiaro dottore, le spiego per bene. Io avevo sei anni quando non ho visto più. E ho scordato le cose, la forma ma solo quelle che nella realtà non volevo vedere. Poi adesso che di anni ne ho qualcuno di più, parecchi di più, adesso che vedo, ricordo ogni cosa.

 

E allora ho pensato che forse, che forse io quello che lei mi ha permesso io, io non lo voglio più. Dottore, mi tolga questi occhi mi tolga sta’ luce, non voglio vedere, non voglio vedere tutte le cose che avevo scordato”. Il dottor D’Ambrosio non parlava e Annina pensava che forse era per il problema alle orecchie, che non lo sentiva, ma adesso no, poteva vederlo, adesso vedeva le labbra serrate, la faccia stupita. Per la prima volta il dottore taceva, non sapeva che dire e Annina capì che anche quelli che pensano di sapere qualunque risposta, certe volte non sanno che cosa inventarsi, e capì in quel momento che non era più Annina la scema, che non era proprio lei l’unica scema.








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