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30 Aprile 2017
Anna come sono tante
di Stefania Castella



Anna come sono tante
tradimento

Mi guardo allo specchio. Scruto ogni angolo e tiro su la spallina del vestito, ma lì no, lì non basta una spallina ci vuole altro. Qualcosa che copra, lì il trucco non tiene. Non tiene sulla spalla, non tiene a lungo, non basterà per tutta la sera. Quando al suo fianco sarò la bella statuina, chiedendomi ancora una volta, “perché sono qui”. Lui integerrimo professore, il mago della chirurgia, lui e i suoi congressi, un cervello infinito e una tecnica sopraffina, mica come me, buona solo a fare due mossette da insegnare a piccoline un po’ scocciate che roteano finché la testa non gira. Io insegno danza, io fatico e ho sempre faticato costruendo il mio corpo la mia forza la mia invulnerabilità, quella che lui demoliva piano piano facendomi sentire una nullità.

 

Bastò una cena un caso, bastò uno sguardo un bicchiere, due chiacchiere per sentire tra le sue braccia l’illusione di poter essere qualcosa di più. Qualcosa di più. Di un’insegnante di danza di una grigia e triste periferia che disegnava bamboline in tutù e sognava le punte. E sognava di diventare qualcuno e pensava die essere qualcuno perché insegnare la faceva sentire qualcuno. Lei era qualcuno prima di incontrare quel grande amore. Illusione. Ho smesso di credere in me stessa e mai di credere in lui. Ogni successo era il suo, ogni vana inutilità la mia. Lui nella perfezione delle sue cravatte, e troppi vizi, tranne quello di vivere. Vizi che facevano storcere i nasi di quelli più in alto di lui. Ed io a parare tutti i colpi, io la sua valvola di sfogo. Io che il vizio di vivere ce l’avevo dentro come la voglia di ridere, coltivare le mie passioni, viaggiare, ridere, vivere, danzare. Vivere. Ciò che rendeva felice me, rendeva ostile lui, ciò che faceva bene a me, rompeva le palle a lui.

 

Una maledizione come il suo sguardo dopo il matrimonio, un attimo dopo era già virato dalla curiosità, dalla voglia, al rancore, al silenzio. Incomprensibile, inconcepibile. Lui voleva il controllo, lui voleva i miei giorni, le mie notti, il comando la guida l’aria. Lui e i suoi colpi, il primo dei quali più forte mi lasciò in una pozza di sangue, e faceva più male pensare al perché che al dolore stesso mentre al pavimento guardavo i suoi piedi, andare e venire, e colpire più forte. Infondo me lo meritavo, un figlio, come pensare ad un figlio, e di colpo cambiare i suoi piani, il lavoro, il suo, il mio, il corpo che cambia senza il suo permesso. Avevo detto “avremo una femmina” e il suo sguardo fece male più dello schiaffo, della spinta dei suoi calci, dei lividi. Mai mai una volta che abbia pensato di dire basta. Mai basta, quando cercavo di nascondere le tracce del suo passaggio, e lui mai che pensasse di cancellare le tracce dei suoi passaggi con lei. Viaggi, alberghi, cene, fiori, fatture accartocciate che puzzavano di bagordi di strafottenza e tradimenti. Avrei dovuto odiarlo e odiavo lei.

 

La cercai, la seguii la spiai. Per settimane, mesi. Entrare, uscire, passeggiare, correre, studiavo il suo viso, il suo corpo, quello che immaginavo lui stringesse al mio posto. Lui. Lei era bella elegante, una linea sottile, splendeva luminosa, leggera, almeno per i primi tempi. Io la seguivo e restavo a guardare, l’ho guardata cambiare. Mutava anche lei, e piano si spegneva così come me. E più le si spegneva, ed io mi piegavo a quei colpi infami, più lui ci fregava, immobile intatto impassibile. Dovevo parlarle e così la fermai: “Mi chiamo Anna, sono sua moglie. Aspettiamo una bimba. Solo questo ti dico e io voglio tenerla. Lo so lui non vuole e poi ci sei tu. Ma io, io lo amo, Sì, credo di amarlo nonostante…” “Lo so, io so tutto, ma credimi ti farà male”. Scostò con un gesto lentissimo una ciocca dal collo e il livido grosso come un pugno violaceo, si piazzò prepotente davanti al mio naso. Come fosse un tatuaggio come il marchio di lui, lo stesso dolore, gli stessi abnormi ricami sul corpo, ricami dell’odio che non sapeva domare. Parlammo per ore. Ritrovando le stesse identiche ore passate a implorare un suo gesto d’affetto. “Mi ha fatta abortire” Claudia, raccontava piangendo ridendo, piangemmo e ridemmo e capii che il nemico non era la donna che c’era al mio posto ma l’uomo che non sapeva che odiare.

 

Ci parlammo ancora, diventando più forti, più forti stringendoci, diventando complici, e sorelle sorelle che conoscevano il sapore dell’uomo che le aveva distrutte. Che non ci avrebbe distrutte mai più. Volevo sorridere, e ridere ancora, volevo danzare e vivere ancora. E volevo la bimba, la volevo a ogni costo. E per tornare a vivere dovevo liberarmi di lui. E insieme con Claudia, la denuncia, il coraggio si fecero impellenti, una necessità che niente avrebbe fermato. La denuncia non lo cambierà. Ma quando ballo e ballo più forte con la mia bambina, capisco che è giusto, è giusto così. Io rido più forte e danzo più forte, la bimba volteggia e Claudia ci guarda e impara anche lei.

 

Danzerà con noi. Più forte, con noi.








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