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RaccontiStefania Castella

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14 Maggio 2017
Uno come noi.
di Stefania Castella



Uno come noi.
Amici. Legami.

Questa storia dovrei cominciare a raccontarla dalla fine, dalla liberazione. Come tante cose dovrebbero cominciare dalla fine, come la vita stessa andare all’indietro. Dovremmo cominciare da vecchi per poi via via proseguire fino a tornare piccoli, a quell’innocente inconsapevolezza a quel limbo, piccolo angolo di felicità in cui sei protetto e nulla potrebbe ferirti o almeno credi. E’ lì che mi ricordo di Claudio. Eravamo vicini di casa e così piccoli. Io figlia unica e sola con la mamma, e sola sempre tutto il giorno anche da piccolina, lui, veniva a vivere a Roma da un piccolo paesino pugliese, mamma casalinga, papà impiegato. Due figure mitologiche con cui ricordo di aver scambiato per anni solo buongiorno e buonasera. Claudio invece lo incontravo spesso, seduto sulle scale. Nell’angolino più remoto, dell’ultimo piano, quello che andava sulla terrazza e dove non c’era nessuno a disturbare. Avevamo sì e no dieci anni e ormai abituati a vivere dividendoci lo spazio di qualche gradino tra un libro e una coca cola. Frequentavamo la stessa scuola, scuola di suore e bacchettate sulle mani a spalleggiarci a vicenda. Crescevamo. Lui secco secco e pieno di riccioli piegati sui libri io con la testa tra le nuvole, persa tra tratteggi e acquerellerei e il sogno di disegnare abiti, praticamente da sempre. Cosa che poi avrei fatto realmente. E chissà cosa avrebbe fatto Claudio se avesse potuto. Claudio è il ricordo di un dolore misto al rimorso, e se dovessi ricordare questa storia dalla fine, la parola che invocavo e resta, è liberazione. Nel ricordo di un ultimo anno, una gita. Un salto indietro a quando sei a metà, non sei né carne né pesce, non sai se è meglio andare a caccia di dinosauri la domenica mattina dopo aver cantato all’oratorio o cercarti tipi con cui spassartela, cosa che i coetanei facevano con naturalezza, cosa che a Claudio non veniva con naturalezza. Sapevo di piacergli, lo sapevo da sempre, l’ho saputo da subito, da quando ho visto spuntare i riccioli dal gonnellone hippy di sua madre, e forse ci avrei creduto, ci avevo creduto alle nostre scorpacciate di schifezze a guardare il panorama lunghissimo di una città indolente, ci avrei creduto fino a quando le tette diventavano tropo larghe per far spazio al cuore e si diventa crudeli e consapevoli, e l’amico secchione è un peso del quale vorresti liberarti. E poi c’era Luca, che arrivava spavaldo in quei diciassette anni di primi batticuori troppo forti da tenere a bada, nulla più resistette sotto il colpo dei primi motorini che ti portano via dalle panchine solitarie. E ciao ciao all’amico triste e ciao alle giornate passate con le orecchie attaccate allo stesso stereo a fantasticare, a sfiorarsi la manina. E Claudio lo sapeva che le strade tra di noi si slacciavano in direzioni distanti e ci soffriva. Io lo sapevo e non facevo nulla con la crudeltà inevitabile di quell’età. Furono anni di sguardi taglienti e versioni di latino passate senza voglia “Ma com’è che la tua è da otto e la mia fatta dalla stessa mano è un meno 4?” Claudio resisteva ai colpi delle cartucce sparate a salve dai compagni, unico secchione in una classe di a-normodotati con la testa altrove. Compresa me. E la gita, la fatidica ultima gita cambiò la vita un poco a tutti. Sotto una pioggerella di un distratto e improvviso giugno, assonnati aspettavamo come al patibolo nonostante la felicità repressa che sapevamo sarebbe esplosa in Spagna, il primo viaggio lungo, da soli, una classe di teste di razzo tutte quante insieme tra il timore di noi ragazze e l’ingordo fermento, avanzavamo per Civitavecchia in attesa della nostra nave. Un viaggio lungo una vita, che doveva essere bello come la vita a quell’età. E non lo è, Claudio era l’ultimo della fila, sempre, Claudio era il silenzio e il sorriso smorzato e ormai una palla al piede incollata a me, che di lui ormai non ne potevo più, Quella la mia estate l’unica occasione per conoscere da vicino il ragazzo che mi toglieva il sonno, per il quale avrei fatto di tutto. “Ma tutto tutto?” la stupida domanda ricorrente delle amiche… E Claudio sopportava muso lungo, i sorrisetti e gli sguardi lo svolazzare di una gonna che sapeva di voglie e libertà. Erano i primi giorni di un sole cocente disgustose colazioni, sballi in discoteca a tirare l’alba con un occhio compiacente del prof. che se la spassava con l’integerrima insegnante di sostegno. Di quella sera di quell’ultima sera, ho ricordi confusi come tanti di noi. Ricordi che diventarono nebbia fittissima da subito, come se il corpo li avesse voluti espellere, estranei. Ricordo come flash la cena quasi decente e il dopo cena, il patio con davanti il bel giardino e qualche sigaretta, qualche bottiglia che passava sotto mano e confidenze, risatine indisturbate, risolini al suo passaggio. Claudio l’isolato, Claudio l’innamorato non corrisposto. Qualcuno diceva che aveva cercato di entrare “in camera della Viviani, ma quella gli aveva sbattuto la porta in faccia. E guardate che la dà a tutti eh!” Crudeli come si può essere a quell’età. Qualcuno dice di averlo visto al bar con due o tre tipi di altre classi, noi non li conoscevamo e beveva beveva forte, e passandogli vicino, la sua occhiata fu fastidiosa così al “Ma lo sfigato è amico tuo?” del tipo affianco a me, la mia frase forse fu piantata sul suo petto. “Lui? No, non siamo mica così amici…”. Lo so sbagliai. Lo so. Poco dopo il corpo di Claudio volò dal quinto piano sfracellandosi sul marmo immobile dì rosa e grigio dell’ingresso secondario. Un urlo del custode che faceva il giro del giardino gelò il sangue fino all’ultimo di tutti i piani dell’albergo. Claudio restava lì in quell’albergo di un paesino spagnolo, in una sera calda di quasi estate nell’ultimo giorno di quello che doveva esser il nostro momento felice. Claudio se ne andava e avrebbe tirato dentro tutti noi. Claudio se ne andava e forse non per sempre. Passammo giorni confusi di luci accecanti di posti di polizia e lingue studiate diventate improvvisamente sconosciute. Genitori da telefonare e angoscia e pianti isterici e la Vannini che sveniva, e De Marino che si mangiava le unghie fino all’osso. Claudio andava via e un pochino di noi andava via con lui. Il ritorno si compì in un silenzio assordante. Era partito con le sue gambe, tornava in una cassa e nessuno di noi riusciva a non pensarci. Ma fu il ritorno a casa il più difficile da sopportare. I nostri genitori ad avvolgerci come coperte davanti a chi insinuava domande su domande, e i genitori di Claudio i più difficili da affrontare. Dicevano che era stato spinto, cercavano colpevoli e bulli, per noi sensi di colpa traditori. Fino a quella sera, circa tre settimane dopo quando una coperta sulle spalle non riusciva a tenere caldo il corpo nonostante fosse quasi estate piena. Il the caldo prearato da mia madre e una pioggerellina che scivolava alla finestra, lì nel mio riflesso vidi lui. Sobbalzando lasciai cadere il liquido bollente che si allargò in una macchia al pavimento, leccato prontamente dal mio micio. Il suo viso era chiarissimo, i capelli riccioluti il maglione grigio e azzurro di quel giorno steso in terra. Lo vidi come si vede un amico in carne ed ossa e cominciò tutto così. Notti tormentate di sogni inquieti, onde che mi ingoiavano, confusine inarrestabile e voci tante voci e in mezzo a tutto il caos In mezzo a quelle voci Claudio parlava e io non lo capivo e mi tiravo fuori dai mei sogni in preda al panico. Giorni su giorni E la sensazione di sentirlo accanto sempre. Costantemente. E cominciarono le prime strane coincidenze. C’erano Marco e Giada accanto alla nostra camera in gita, tra il prof del piano, Claudio e un altro gruppo. I due erano insieme da poche settimane, due tipi normalissimi carini innamorati, dal mano nella mano e la fine infame sui binari di un treno. Dissero che avevano cercato di farsi un selfie e un treno li aveva presi in pieno. Un colpo orribile per noi che li conoscevamo. Al funerale ci incontrammo e non avevamo parole per il dolore che in quei mesi ci aveva trapassato. Volti tirati occhi gonfissimi lacrime senza sosta. Miriam era la migliore amica di Giada, sapeva che lei non era certo una tipa da fare stronzate, la vidi indossare il caschetto e saltare sullo scooter. Quel pomeriggio ci avvisarono che era finita in ospedale, forse il dolore, la confusione non aveva visto lo stop e un auto l’aveva travolta. Restò in ospedale per mesi in coma. Era quasi dicembre e orami il nostro gruppo era disperso dall’ultimo anno, ma in ospedale c’eravamo tutti anche quando ci dissero che era tutto pronto l’espiato. Raccatto i miei fogli, cerco appunti per concentrarmi su esami da organizzare cade un libro della Fallaci lo rialzo senza voglia, ricade, lo alzo ricade. Lo sento è lui. E’ con me. Ed è sempre così niente chi io possa spiegare niente che io possa raccontare, magari la mente stressata che gioca i suoi tiri. E qualche tiro lo feci quella sera con Max al bar della piazza che avevo raggiunto, avevo bisogno di aria, freddissima e odore di erba. Finimmo a casa sua, e i miei giorni senza prospettive e senza più giorni finirono tra le sue lenzuola, il piumone e il calore del suo corpo accanto. Mi svegliai sotto il colpo delle sue manate, Max mi scuoteva seduto al centro del letto, aveva le mani alla gola e a cercava di ingoiare aria, rantolava respirava a fatica mi misi in ginocchio non riuscivo a capire, lo vidi diventare paonazzo cecai di aiutarlo dicevo “Respira” battevo sul petto. Mi disse qualche minuto dopo riprendendo un po’ di colore che qualcosa sembrava lo stesse strangolando “Ti giuro sembravano mani”. Mi vestii in fretta per tornare a casa e più per la voglia di sentire la strada e l’aria sulla faccia. E sapevo che lui era lì, con me. “Ti prego se sei tu. Se sei tu Claudio, qualunque cosa sai. Perdonami” guardai la riva del fiume dal ponte in un mattino gelido e immobile e piano cominciava la neve. Quel mattino i miei erano ancora stranamente a casa, non dissi niente mi infilai nella doccia e mi ritrovai tempo record di due minuti dopo, faccia a terra. Il tappetto che resisteva da anni era improvvisamente scivolato sotto i miei piedi. E così anche io ebbi la mia dose di corsa in ospedale, non come loro non come gli altri, non come Max che due giorni dopo durante una rapina restò secco sotto un pontile freddato da un colpo di pistola, pistola sconosciuta mano sconosciuta. “Sei stato tu vero? Cosa vuoi Claudio?” Ormai parlavo da sola. Giravo a vuoto e sentivo che era lì, aspettavo di sentire la sua voce spuntare i suoi riccioli e succedeva nel riflesso beffardo di una luce sul vetro. Avevo bisogno di staccare la spina così con due amiche decidemmo di partire, una breve vacanza avrebbe fatto bene alla a testa. Un centro benessere massaggi relax, la piscina, la sauna. Ma Claudio non esitò a viaggiare per stare con me. Lo seppi dalla prima sera quando Valeria che era con me dopo un tuffo nella tiepida acqua azzurrina della piscina non riemerse subito. Capimmo che qualcosa non andava e io fui la prima tuffarmi ma prima di intravederla nell’acqua termale sentii che era lui a tenerla lì sotto. “Lasciala ti prego lasciala Claudio ti prego basta”. Valeria riemerse, un palloncino che schizza una volta mollata la presa. Seppe dire solo che qualcosa le teneva i piedi. Decidemmo di tornare quella sera stessa. Ma la situazione era insostenibile e decisi che era il momento di fare qualcosa. Suonai alla sua porta e sua madre, uno scheletro senza più vita mi accolse senza parlare. Le chiesi di vedere la camera di Claudio per sentire, il suo ricordo più vivido. Lei capì ed accettò. E lì nella sua camera mi fu accanto come mai prima d’ora. Cercai ta le cose, foto segni appunti e libri e spuntò improvvisa una piccola bustina rossa e dentro un foglietto: “Me la pagheranno tutti nessuno escluso”. La data era quella di quell’ultimo giugno, poco prima della gita. E mi sembrò quasi chiaro il suo piano, preciso; Claudio aveva deciso di togliersi la vita e di toglierla a noi, a chi gli era stato accanto, a chi lo aveva vessato, tradito abbandonato. E adesso toccava a me. Lo sentivo. Aprii la finestra e stanca gli parlai: “E’ me che vuoi? prendimi pure, Sono stanca Claudio ti prego non avrò mai il coraggio dammi una spinta e facciamola finita”. Le lacrime mi scendevano salate ai lati della bocca avevo paura e più della paura la stanchezza di vivere così. Sentii il calore delle sue mani come un abbraccio, mi spinse ma non verso il vuoto qualcosa mi spinse a tornare indietro. Un rumore sordo e sentii che qualcosa era mutato. Avevo capito e nulla cambiava dentro me. Sentii che Marco aveva bisogno di aiuto, strappai la lettera in mille pezzetti, li lasciai andare nell’aria. Insieme a loro volò via la paura, restò il ricordo del suo viso, restò per sempre nella memoria ma no tornò no tornò più e forse aveva raggiunto il posto in cui doveva essere davvero.








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