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31 Ottobre 2015
Amore mio, ti amavo, da morire...
di Stefania Castella



Amore mio, ti amavo, da morire...
la fine dell'amore...

Ti ho detto “se mi lasci muoio”. Te l’ho detto tante volte, tante da sfiancare, te e pure me. Non è stata colpa mia, amare può essere una colpa? Sei venuto tu a cercarmi io non sapevo neanche della tua esistenza. Io esistevo invece, finalmente esistevo per il mondo che contava, almeno per me. “Madame, i fiori…” La vestaglia rosa svolazzava ordinata, sembrava fosse disegnata apposta per scivolare su di me, perfetta, avevo imparato ad ondeggiare come le dive, quelle della tv, a muovere le onde dorate dei capelli come facevano le altre prima di me. E il mondo si fermava. “Che bella che siete signorina, e guardate le rose so’ sempre così belle” gli occhi di Luisella si illuminavano ogni volta. Ogni volta che la guardavo vedevo me, qualche anno prima. I capelli legati a “tuppè” la faccia stanca, i calli alle mani a fare la massaia per quelle signore che non facevano altro che stare a culo seduto, una volta il latte, una volta il thè, passavano la giornata a sorseggiare mignolino in alto, con la faccia unta di vapore di tisane, la puzza sotto il naso, il naso mio ammorbato di erba marcia. Ma io aspettavo il momento e il momento doveva pur venire prima o poi.

 

La vita, lo sapevo già, è come un bambino con un gioco nuovo tra le mani, all'inizio ci sta attento lo tiene bene bene, poi piano piano ci comincia a staccare un pezzettino e alla fine si dimentica pure dove lo aveva messo. Sapevo che quella non era la vita come doveva essere. Non lo era stata ancora. In mezzo ai cavalli e la merda da spalare. Spalare, sellare, aiutare la famiglia, imparare a scansare i calcioni e le mani lunghe di chi avrebbe preferito cavalcare me più che i purosangue di papà. Non c’era da lamentarsi, quel lavoro rendeva, ci aveva permesso la casa grande, la macchina, il televisore che non ce  l’avevano mica tutti a colori. Ma il giocattolo tra le mani della vita stava per essere fatto a piccoli pezzettini. Quando lui galoppò via con una rossa dalla coscia tornita da bella puledra, a noi non erano rimasti che i debiti. I cavalli li avevano in breve sequestrati, lui si era dato senza nessuna preoccupazione, io e la mamma dovevamo arrangiarci. Casa decrepita in affitto, qualche lavoretto (io) molta disperazione (lei) a cui facevo da donna a ore come alle altre signore, dato che a parte chiedere e avere, non aveva mai fatto molto in vita sua, e non ci guadagnavo neanche una lira.

 

Aveva dalla sua che la sete di arrivismo, l’ambizione non si era spenta con lo stato in cui eravamo anzi, non faceva che illuminarsi alla luce di quelle trasmissioni che guardava, di vallette sgambettanti, di dive da gran soirée. Si era convinta che dovevamo puntare in alto, che bisognava cercare di fare qualcosa, una sfilata, un concorso. E incalzava con la solita storia della Marchesa Pinuccia che nel negozio di stoffe cercava una mannequin, che dovevo provare, che da qualche parte dovevo pur cominciare. E io provavo e funzionava effettivamente, mi vestivano agghindavano come uno di quei manichini dalla faccia fissa nel vuoto, e io sfilavo con le mani intorno alla vita sottile. Ero stata fortunata a nascere così, lo diceva continuamente “metà è fortuna e metà è merito mio, guarda qua che fianchi” non faceva che ripetere, e me ne convinsi tanto che cominciai a crederci, a prendere lezioni di dizione, di portamento. Vennero piccole particine, molte cene, parecchi dopo cena, un po’ di soldi e quello che volevo, l’attenzione del mondo intorno, non il mondo che puzzava di cavalli, non il mondo delle signore sudate che invidiavano il vitino da vespa. Un mondo luccicante, che contava, che era più di quello che ruotava intorno alla mai gioventù.

 

Il teatro mi appassionò, leggevo, studiavo, imparavo, memorizzavo mi immedesimavo, funzionavo. Andava bene, andava che dalle file dietro come una prima ballerina avanzai più avanti guadagnando la stima dei registi che mi cercavano perché ero brava, perché parlavo con la voce, con il corpo. Ero sul punto più alto di una montagna di facce ferme a contemplarmi quando arrivò il primo mazzo di rose. Diverso dagli altri. Tutti i fiori sterili simili che arrivavano corredati di vistosi bigliettini di appuntamenti, di richieste, il commendator Lupini, il dottor De Giorgi, omoni grassocci, ricchi di tasche e di inutilità. Queste rose invece, rosse, enormi, mazzi giganteschi non avevano biglietti, niente. Arrivavano una sera sì e una no e avevo cominciato a sbirciare per vedere di intercettare, che so, una faccia che mi potesse ispirare in qualche modo, un segno. Erano passati diversi mesi e alla penultima replica il bigliettino: “Mia magnifica Dea il mio desiderio più grande è accompagnare questi fiori personalmente domani per l’ultima serata”. “Signora guardate, so’ quaranta giuste giuste, come sempre e guardate come so’ belle!” “E dammi qua ciocià, che le spenni tutte” avevamo visto cadere il bigliettino guardandoci senza il coraggio di raccoglierlo. “Che dice Signorì?” “Dice che vuol venire di persona a portare i fiori domani sera” e mi sentii percorrere da un brivido che dovetti contenere visto che si affacciava il vice sindaco per la consueta routine dopo spettacolo cena – dopo cena.

 

A casa ci pensai con la paura che sapere di vederlo, mi avrebbe potuto far dimenticare le battute, mi addormentai pensando a quale forma poteva avere la sua faccia. Durante lo spettacolo nonostante il faro, cercai più volte di osservare la folla davanti, ma niente, non riuscivo a distinguere bene tutte le facce. Mi porsero la battuta finale e via, inchino da gran dama e applausi, qualche fiore, qualche vecchietto entusiasta con ancora la forza di stare in piedi a scalmanarsi per me. Tornai in camerino accaldata dall’emozione, volevo essere di più e quando la Luisella bussò, da diva restai seduta voltandomi quel tanto che bastava a lasciar scivolare la vestaglia dalla gamba al pavimento, dissi “Sì?” impastata da un rosso fuoco che parlava per me “Signorì ci sta’ un giovine che vuole vedervi” Burina malefica, sorrisi e lo vidi.

 

Ecco, la visione del suo volto mi inchiodava. Occhi dritti, stretti, lunghi neri profondissimi una fronte che non era una fronte, era un rettangolo preciso, solcato lievemente da una piccola ruga che lo accarezzava leggera, scivolando fino al naso dritto, regolare, la mascella squadrata accompagnò le labbra a schiudersi in un sorriso a bocca chiusa, come intimidito. Aveva i capelli lucidissimi e una fossetta sul mento un abito elegante, scuro, sobrio, per la prima volta in vita mia abbassai lo sguardo, quasi non riuscivo a guardarlo, mai avrei pensato di un uomo, mai avevo pensato di tutti gli uomini visti fino ad allora “Dio, è così bello”. Non sapevo nulla di lui, non conoscevo la sua voce, non sapevo che odore avesse la sua pelle, neanche più da quanto tempo eravamo lì a fissarci, scoprì solo in quel momento che si poteva essere semplicemente belli, rapire gli occhi come poteva fare una diva, senza aver bisogno di esibire nulla. Marcello mi veniva incontro ed io arretravo imbarazzata, mi prese la mano per sussurrare un bacio lieve “se si cambia, mi piacerebbe invitarla a cena. Fuori è freddo” questo disse ed erano le prime parole che rimanevano impresse nella mia testa e nel mio cuore, trapassato dalla voce calda, sensuale con una leggera inflessione meridionale, forse siciliana.

 

Non avrei mai creduto che ci si potesse perdere così all'improvviso. Marcello veniva alla fine di ogni spettacolo, aspettava immobile, sempre impeccabile, scivolavamo nella notte camminando affianco, senza mai andare più in là. Era stata Milano e il freddo in una piazza gigantesca e piena solo dell’eco delle nostre risate. E poi Roma e le corse sulle scalinate immense in mezzo a una bellezza che ci guardava invidiandoci. Intanto intorno cominciavano a riconoscere il mio viso, a fare foto. Ridevamo forte e scappavamo via. Ci perdevamo sulla spiaggia a Capri e lunghe camminate a piedi nudi e baci, baci da perdersi, senza volersi ritrovare, perdersi tra le sue braccia e nulla più da chiedere. Avevamo fatto il giro del mondo in pochi mesi, almeno a noi era sembrato il mondo intero, a noi sembrava una vita intera e quando le mie foto cominciarono ad uscire sui giornali sulle rivista patinate, mi sembrò che la felicità fosse completa. Lo portai in campagna a veder i posti dov'ero cresciuta dove inventavo da bambina il mondo intero.

 

Mi sorpresi a pensare con i piedi immersi al fiumiciattolo, che sarebbe stato bello avere qui, una madre un padre, a cui parlare dei progetti col mio amore. Una villetta, dei bambini. Ma loro non c’erano più da tempo, e forse non avrebbero saputo cosa dire. Forse avrei potuto smettere per un po’, fare la moglie oppure no, magari lui sarebbe stato felice di accompagnarmi in quei successi…Quei pensieri quei progetti, erano solo dentro me, a Marcello non piaceva dar nell'occhio, scappava via se c’erano i fotografi, cambiava umore se vedeva gente intorno. Cominciò ad essere nervoso, strano, distante. Le rose che non arrivavano più mancavano come iniziò a mancare lui. Non rispondeva al telefono diceva di esser fuori per lavoro, che in ufficio c’era un cambio di personale una volta, due, cento…E un giorno vidi una sua foto su un settimanale “Eccolo l’uomo segreto della grande Liza Vivian e la sua famiglia” cercai di mettere a fuoco, l’immagine non era chiarissima, c’era un uomo che stringeva il braccio introno alla vita di una donna, un bimbo tra le braccia di lei… Marcello?” non potevo crederci. Avevamo passato mesi insieme…non poteva essere.

 

Dovevo capire, lo cercai e non fu facile cercare lui, e non farsi trovare da qualche paparazzo in odore di storiella. Mandai la Luisella ad un indirizzo che avevo rintracciato attraverso un numero a cui non rispondeva mai nessuno. Lei lo vide entrare ed uscire dal portone più volte. Dovevo farlo anch'io, aspettare che rientrasse, sapevo che aveva uffici in centro e una sede che raggiungeva nei fine settimana a Firenze. Studiai, mi informai, venni a sapere che quella signora era la moglie sì, che era salita dalla Sicilia con il bimbo per star vicino al suo bel contabile libertino, magari aveva rintracciato qualche paparazzata che le aveva messo la pulce nell'orecchio. Telefonavo giorno e notte, una volta che dall’altra parte sentii la sua voce “Marcello dobbiamo parlare...” neanche il tempo di dire altro. “Non posso, senti è finita. Oh rassegnati”.  Mi sentii morire, io, ero io, ad aver lasciato fino ad allora, io la diva, nessuno mi aveva mai trattata così, non più da quando avevo smesso di fare la serva. Quel ragioniere inutile, traditore, bastardo, bellissimo… perderlo mi faceva impazzire, ribollire dalla rabbia. Iniziai a diradare gli impegni a teatro, non dormivo più, cercavo notte e giorno di sentirne la voce al telefono, aspettavo ore sotto casa e osservavo lei, come camminava, come si muoveva, il suo cappotto, le sue mani, il bimbo. Quello che potevo essere, quello che potevo avere.

 

Avrei dovuto parlarle. Decisi di avvicinarla un pomeriggio per strada. Avevo una parrucca scura, gli occhiali, un lungo cappotto cammello, le passai vicino. Lei spingeva la carrozzina, voltai la testa, le sorrisi “Sono la donna di suo marito” e avanzai sentendo il sudore colare sulla fronte, mi sentii afferrare il braccio. “Cosa dice? Scusi ma chi è lei è? Guardi che …” pensai che avrebbe fatto una scenata. “Vediamoci da me, parliamo” ma lei mi spiazzò, “sto rientrando, venga su da me, non c’è nessuno, potremo parlare”. Salii le scale che lui saliva in quel suo quadro familiare intatto, osservando tutto quello che lui toccava con le mani che avevo baciato e tenuto dentro e intorno e stretto a me. Era tutto assurdo ma continuai a seguirla. Entrammo in casa, mi offrì un caffè, il bimbo aveva il sorriso del padre, la fossetta, le guancette tonde. Sentii la testa girare mentre mi diceva “lo lasci stare è un uomo che per lavoro viaggia tanto, le corteggia, poi… sa di essere bello e poi, aspetto il secondo…” si alzò dandomi le spalle e fui tentata, sì, di alzare quel centro tavola enorme lasciandola lì, stramazzata in terra, prendere il bimbo e vivere con lui per sempre come se, come se…

 

Strinsi il vetro freddo tra le dita cercando la forza di sollevarlo e lei rientrò guardandomi negli occhi “mi dispiace veramente, glielo giuro, non è la prima volta che succede. So che mi ama, io amo lui e …” e non era giusto, niente di tutto quello era giusto. Nessuno di noi era al posto giusto, e non era lei a dover pagare. La mia follia non era rientrata era solo deviata e rimandata. Lei mi disse “tornerà da Firenze questo fine settimana, le lascio il tempo di parlargli. Venga qui per mezzogiorno” … Mi invitò a nozze, gliene avrei dette tante a quel bastardo, quel maledetto, magnifico, bastardo. E forse l’avrei convinto, forse, fanculo tutti, avremmo fatto l’amore una volta, mille altre volte… sapevo che quando l’avrei avuto davanti, non avrei avuto il coraggio di alzare un solo dito… “Io ti amo”. “Mi dispiace, ma io sono sposato, ho cercato di fartelo capire…” “E come? Scopandomi e sparendo? Scusa non avevo capito. Tu sei stato mio, io ci credevo Marcello, io… ” sentivo le lacrime scendere giù e i singhiozzi salire forte, lui mi prese per le braccia “aspetto un figlio, un secondo figlio, non la lascerò mai, capito?” aveva gli occhi stretti crudeli e dentro tutta l’aria di chi si faceva beffe di me, di quello che sentivo. “Continua a fare la diva, dai, datti a qualche altro, che ci metterai?” “Sei un bastardo, maledetto. Maledetto, se mi lasci, io, io muoio “. “E muori”. Lo disse con così tanta cattiveria, con lo sguardo rosso del non amore, così doloroso che no, non poteva finire così non ero io a dover morire. Afferrai il centrotavola che adesso sapevo quanto potesse pesare, lo colpii alla nuca forte, un solo urto, un solo mugolio e un solo rantolo, spento sul pavimento. Restò fermo, immobile mentre intorno si allargava una macchia rosso scuro. Tirai su i piedi per non sporcarmi, misi a posto il centro tavola ripulendolo. Infilai il cappotto, fuori era ancora freddo. Amore mio ti amavo, veramente, tanto da morire…








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