 | | Periferie |
“Vuoi una storia? Raccontagli di me.”
Mi chiamo Antonio, ho 16 anni. Ce li ho da tre anni, ce li avrò per sempre. Se ci penso sono fortunato, non diventerò come quei vecchi incazzati senza denti con la faccia scura di chi ha passato tutta la vita come un disperato. Che fai, ti giri di là? Ascoltami, ti voglio raccontare, che ce ne sono tanti come me, che non sanno com'è la vita, che fanno sogni e non ci credono che li possono realizzare, perché nessuno glielo dice. In mezzo al niente ce ne sono tanti, crescono come l’erba intorno ai marciapiedi, sotto al sole la pioggia, attorno a un pallone senza una porta, aspettando un campetto che non arriva mai. Quello, dicevano che lo costruivano, ci è rimasta solo la recinzione intorno, in mezzo ci crescono gli alberi, ci corrono i topi. Le altalene dove potevano giocare i piccoli stanno disperse in mezzo all'erba alta, le lattine qua e là come mazzetti di fiori, fazzoletti sporchi, siringhe, cicche giallognole come margherite.
Mio padre se ne è andato quando avevo quattro anni e mia sorella uno. Non stavamo qui, vivevamo al centro, in una casa che non sapevi dove finiva e cominciava quella di Armando, stavamo sempre insieme con le porte aperte, insieme sempre. Poi un giorno ci hanno detto che dovevamo trasferirci, andavamo in una casa più grande, un bel palazzo nuovo. Un parco, come quello dei film coi giardini intorno, e piscine e campi di calcio, un parco tirato su coi soldi del terremoto, quante cose ci dovevano venire sotto i porticati, sono rimasti solo i porticati, di tutti quei progetti. Il verde, solo sulla carta strappata dei manifesti elettorali. Le piscine sono pozzanghere che si allaga tutto quando piove e devono correre a sistemare le fognature. Stavamo al terzo piano, stavamo chiusi dentro, sempre. Quando mio padre se ne è andato mia madre ha cominciato a lavorare, e a invecchiare. Lei voleva che io e mia sorella ci impegnavamo a studiare, diceva che bisognava studiare per diventare “che ne so, un dottore, un avvocato. Tu una bella maestra, così andate via e io vengo con voi!” e sembrava che ci credeva veramente, sorrideva pure. Poi usciva a pulire casa di quella del quinto e diceva “non uscite” e “non aprite a nessuno” e poi mi guardava negli occhi, forte, come se mi volesse stringere e stritolare, diceva “ce ne andiamo, lo sai che poi ce ne andiamo tutti e tre prima o poi” e mi dava un bacio in fronte e io mi pulivo con la manica della felpa e lei rideva.
E la sera dormivano nel lettone tutti e tre, e la piccola saltava sulla pancia sua e ci facevamo il solletico e ci addormentavamo con la tele accesa. E sembravamo felici e un poco lo eravamo. Noi sì, io sì anche se lei la sera quando credeva che dormivamo la sentivo che piangeva. Io pensavo non doveva piangere, pensavo che dovevo proteggerla, e farla felice. Ma a me di stare in classe a sentire matematica che urlava, scienze che stava lì a disperarsi perché Di Mauro si alzava e disturbava… insomma mi piaceva scrivere e mi piaceva pure leggere ma quella terza media l’avevo strappata per un pelo. Di Mauro era amico mio, Angelo, ogni volta che suonava al citofono mamma faceva la faccia strana, lei non voleva che uscivamo insieme. Angelo non voleva studiare andava in giro tutto il giorno coi motorini che prendeva dalla rimessa del padre “ma che me ne faccio io della scuola? Io voglio lavorà”. Mia mamma mi aveva voluto iscrivere al tecnico lontano da casa “lontano da qui” un biglietto in mano diceva “niente motorino, vai col treno” e così pure la mamma di Angelo si era convinta. L’unico che non era convinto era Angelo e un poco pure io, che là facevano i fichetti, noi eravamo quelli che venivano dalla periferia, ci andavo solo perché così vedevo Amalia, facevamo la stessa scuola dalle elementari. Magari se l’era scordato a Borrelli il figlio del pediatra, che faceva lo scientifico. C’è ancora da qualche parte stropicciato tra le pagine di un libro scarabocchiato il biglietto che avevo scritto per lei “ti vuoi mettere con me? Si- No- Forse. L’avevo messo sotto al suo banco, lei mi aveva guardato poi aveva guardato Borrelli. “Che me ne faccio io di te. Tu non tien’ niente. Paolo sì, magari apre lo studio come il padre e ce ne andiamo a vivere in una villa bella col giardino” nell'ora di spacco mi aveva spaccato il cuore ma mica mi ero arreso.
Solo che Angelo una volta non entrava, una volta faceva tardi, io con lui. Alla fine non ci andavamo più e i professori avevano pensato “meglio così” ma non era meglio così, pensare che nemmeno a loro importava. Passavamo il tempo a girare per i viali, ogni parco il nome di un fiore, “parco dei gigli” “parco della giunchiglia”, del gelsomino, ma chi li aveva mai visti quei fiori, non c’era nessun fiore, nessun odore, non avevo mai visto una ginestra, non sapevo nemmeno che odore poteva avere, se aveva un odore diverso dalla puzza degli androni. Passavo il tempo a casa a guardare mia sorella che piccolina stava incollata alla tele a vedere tutte le cose che sognava di comprare. Io pensavo “un giorno te le compro tutte, tutte le principesse dei castelli e tutti i castelli così che non devi desiderare niente. E pure a scuola di danza ti mando” che i soldi per quello non ce n’erano e le piroette le faceva tra il tavolo e il frigo.
“Ho sedici anni e posso lavorare” ma la risposta era stato uno schiaffone dietro alla testa “non ci pensare nemmeno. Tu devi studiare. Non ti piace di scrivere canzoni? Sei bravo, io lo so che un giorno vai a Sanremo. Ma se non studi non vai da nessuna parte. E mo’ va’, a Madonna t’accumpagna”. Mamma mi salutava e non avevo il coraggio di dire che a scuola non ci andavo più, andavo in giro con Angelo che diceva che un paio di lavoretti “e ti compri pure il motorino” ma io i lavoretti con lui non li volevo fare. Meglio a fa’ il ragazzo della pizza. “Se se, ma chi te lo fa fare” diceva e una sera che qualche lavoretto non era andato come dicevano loro, quelli che ce lo avevano mandato, Angelo non è tornato più a casa.
“Ascolta a mammà, devi impegnarti, devi studiare. Com'è che hai scritto aspè… “Ti porto via da sta’ periferia ti faccio fa la vita che volevi che non credevi. Non come in mezzo a questi marciapiedi che puzzano di vite andate a male, ti porto via di qui ti porto al mare… E poi come continua Antò?”. “Non lo so mà, te lo dico stasera quando torno” …
E Mariano mi ha detto che cercavano un ragazzo per quel cantiere che mo’ si era aperto. Stavano finendo quei palazzi, quelli coi giardini intorno e forse le piscine, e magari quel campetto che dicevano. “Fai finta, dici che c’hai diciott'anni, che te ne fotte. Nessuno ti chiede niente.”
“Io sì, io lo so fare, l’ho visto un sacco di volte. So impastare, so mettere le mattonelle, no scusate non c’entrava ma posso imparare. Devo salire? No, non mi fa niente, mi sembra come quando andavo con mamma e papà sulle montagne russe. Si vede sotto che sembra quasi bello. I mozziconi da qui sembrano ciuffetti di fiorellini, nemmeno i rami secchi degli alberi invecchiati si vedono da qui. È bello, un bel progetto.
Un momento ma che è? Com'è che è un attimo, arrivi giù volando e non ti rialzi in volo come fanno gli uccelli all'improvviso che spiccano e scansano veloci pure i sassi… È freddo, solo freddo… sembra che tutto intorno è diventato opaco, mi sembra come un film senza più l’audio. Mi sembra un film, proprio un film.
Sono Antonio ho sedici anni da tre anni, sedici anni per sempre. Ho visto un giglio bianco come quello della Prima Comunione, ho sentito pure l’odore che non mi ricordavo, è proprio bello, dovrebbe profumare così tutto intorno, sarebbe bello, sarebbe proprio bello.
“Ti porto via da sta’ periferia ti faccio fa la vita che volevi che non credevi. Non come in mezzo a questi marciapiedi che puzzano di vite andate a male ti porto via di qui ti porto al mare…lasciami solo il tempo di sognare che si può fare, che si può fare, se solo avessi il tempo, se avessi avuto il tempo di sperare…”
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